“Amore, sono incinta!”. Tre parole che racchiudono al loro interno infinite sfaccettature e aprono la porta ad infiniti mondi. La fidanzatina che lo comunica ancora tremante al suo ragazzo spaventatissimo; la moglie che dopo mesi di tentativi lo grida al marito entusiasta.
Fin da piccoli siamo stati abituati a immaginare questa frase come l’inizio di quella magica avventura chiamata maternità, ma oggigiorno sappiamo che in molti casi non è più così.
Da metà degli anni ’80, quando venne realizzato il primo esperimento di maternità surrogata, si sono spalancate le porte a nuovi concetti di concepimento. Non più il naturale risultato di un rapporto sessuale fra un uomo e una donna, ma un qualcosa che si poteva ottenere in laboratorio.
La pratica dell’utero in affitto, così chiamata pur comprendendo anche la possibilità (abbastanza rara) che la donna ricevente si metta a disposizione senza scopo di lucro, ha reso possibile l’esperienza della maternità anche per coloro che non potevano diventare naturalmente genitori.
Coppie dove uno dei due partner è sterile, coppie omosessuali, o, per fortuna più raramente, coppie nelle quali la donna non vuole affrontare tutti i lati negativi della gravidanza senza per questo rinunciare ad essere madre.
Questa nuova visione della maternità ha sollevato numerose polemiche di natura etica, sia sulla pratica in sé, sia sulla figura della donna che “affitta” il suo utero.
Il più delle volte le donne diventano “donatrici” di utero per motivi economici, spesso dettati dalla povertà estrema: non a caso in India c’è il più elevato numero di casi di maternità surrogata, con un vero e proprio “turismo” proveniente da tutto il mondo, a iniziare dall’Europa.
Donne che mettono a disposizione il loro utero, e in certi casi anche il loro ovulo, per far nascere un bambino, che dopo 9 mesi di gravidanza verrà loro tolto per sempre. È inevitabile di fronte a questo porsi delle domande, etiche ma anche legali, ed è quello che sta succedendo soprattutto da una decina d’anni, da quando molti Paesi liberali o tolleranti nei confronti di questa pratica stanno rivedendo il loro atteggiamento.
In primo luogo si mette in evidenza la necessità di tutelare maggiormente la donna che conduce la gravidanza e si tende ad escludere sempre più l’affitto dell’utero in cambio di denaro; in secondo luogo si pensa anche ai diritti del bambino che deve avere la possibilità di conoscere la donna che lo ha dato alla luce, così come lei deve avere la possibilità di rivederlo.
Perchè se è vero che il genitore di un figlio è colui che lo concepisce o lo cresce, non si può ignorare il legame, non solo biologico, ma anche psicologico, che si crea in 9 mesi di gravidanza tra una donna e il figlio che porta in grembo.