Di Asia Santi
Ritorna in gioco la questione sociale ed economica della legalizzazione della prostituzione, portata avanti dal senatore leghista Gianfranco Rufa.
Secondo quest’ultimo la prostituzione illegale in luoghi pubblici andrebbe abolita, per legalizzare così le conosciute “sex houses”.
La legalizzazione non é solo giusta per una questione di sicurezza (in quanto le donne che lavorano in queste case del sesso si trovano giustamente costrette a sottoporsi ad esami semestrali che possano escludere la presenza di eventuali malattie sessualmente trasmissibili o gravi infezioni genitali), ma anche per una questione di umanità.
É eticamente corretto considerare la prostituzione come un lavoro sicuro a tutti gli effetti , ed è giusto che come tale esso comporti una tassazione dei redditi.
Alla luce dei fatti, bisognerebbe dunque lottare per la salvaguardia di una professione semplicemente diversa da quelle standard che tutti noi conosciamo.
Il ruolo della donna in queste “case chiuse” viene difeso, tutelato. Le donne scelgono le proprie ore di lavoro e la tipologia di servizi eseguiti: nulla deriva da una qualche forma di costrizione o violenza.
Ovviamente non sempre è così, e spesso succede che queste donne indifese e bisognose di aiuto si sentano sfruttate nel profondo.
Molte intraprendono questa strada per bisogno, per mantenere una casa o una famiglia; altre perché scoprono la facilità con cui si guadagna un grande profitto.
Tutto questo è giusto se è la donna stessa ad aver scelto di lavorare serenamente in queste strutture: l’importante é essere libere di scegliere sul proprio corpo e sulla propria vita: se una donna fa questo lavoro per hobby e divertimento ben venga; quest’ultima non dovrebbe essere giudicata per il lavoro che svolge, nè tanto meno per i vestiti che indossa (sempre se tutto questo, ovviamente, rispecchia una sua scelta fatta consapevolmente).
La richiesta di abolizione della legge Merlin (che nel 1958 portò all’eliminazione delle case chiuse) viene portata avanti per far si che la prostituzione e l’incarico di escort diventino pratiche sicure, e che i pericoli derivanti da un’ inconsapevole esecuzione del lavoro e da una non conoscenza del richiedente di un servizio illegale vengano eliminati definitivamente.
Dietro tutta la questione troviamo certamente un movente economico: gli uomini usufruiscono maggiormente di un servizio sicuro, mentre i sensi di colpa si fanno sentire meno.
Tutto é legale, regolato e tassato.
Per far si che la figura della “prostituta schiava” venga eliminata, tutto il processo andrebbe regolarizzato, con norme certe dal punto di vista fiscale, sanitario e umano (dove il consenso ed il rispetto sono alla base di tutto).
La domanda che tutti si pongono è: risulta giusta quindi la riapertura delle case chiuse? Le femministe estremiste (e aggiungo superficiali) griderebbero no, poiché vedono nella prostituzione uno “sfruttamento del corpo femminile”, che non è però attuabile e fondato dal momento in cui sono le donne stesse a scegliere senza costrizioni di far pagare un servizio offerto dalle stesse, e nelle case chiuse avrebbero solo l’agevolazione di poterlo fare in totale sicurezza e sotto costante controllo.
Il femminismo lotta da sempre per la libertà di scelta, di parità e di espressione femminile, e in questo caso l’imposizione di una scelta per loro “etica e dignitosa” vede poco in comune con la libertà, mentre si riempie invece di pregiudizio e critica sociale.
Non si è ancora arrivati ad una scelta definitiva, e intanto la prostituzione continua ad abitare le strade cittadine, fra gli sguardi di bambini innocenti ed il pericolo di incontrare uomini violenti e disumani.