Di Francesco Stefanelli. Sporco, grezzo, profondo, lisergico, sono solo alcuni degli aggettivi che possono descrivere quel capolavoro del 1992, targato Alice in Chains, intitolato Dirt. Quest’album si colloca nelle opere magne della scena Grunge di Seattle dove, insieme a Ten dei Pearl Jam e Nevermind dei Nirvana, delineano i problemi “sporchi” dell’uomo e del suo animo. La chitarra logora e pesante di Jerry Cantrell e la voce straziante e carica di malinconia di Layne Staley sono le colonne portanti di tutto il lavoro, traghettando l’ascoltatore in un mondo segnato dalla droga, con brani che trattano direttamente dell’esperienze che il frontman ha avuto con esse, la guerra, la solitudine e il suicidio. Lo stile dell’album segna una rottura con il sound del precedente lavoro Facelift (1990), accantonando le sonorità hard rock a favore dello sludge e stoner metal.
I singoli a trainare il successo di Dirt sono tra i brani più celebri del quartetto di Seattle; Would? , brano dedicato al compianto Andrew Wood, il cantante dei Mother Love Bone morto di overdose, Rooster è una canzone biografica sul padre del chitarrista Jerry Cantrell che partecipò alla guerra in Vietnam, Angry Chair è un episodio di emarginazione che ebbe Layne Staley ed infine Down in a hole, uno dei brani più significativi della loro discografia, in cui la morte (o la droga) è un abisso da cui non si può fuggire e da cui tutti non possiamo astenerci.