Di Daniele Sestili.

State passando una serata in compagnia e desiderate vedere un film horror in grado di spaventarvi o suscitare qualsiasi altro tipo di emozione? Bene, guardare Halloween Ends è la scelta più sbagliata che possiate fare. Il film, recentemente uscito in sala e ultimo della recente trilogia diretta dal regista David Gordon Green, chiude la celebre e pluridecennale saga sul serial killer Michael Myers, che per la brutalità degli omicidi commessi durante questa serie di pellicole è diventato agli occhi del pubblico e nell’immaginario collettivo la rappresentazione e la personificazione del male per eccellenza. Di per sè il film non sarebbe neanche tanto male, se non fosse che, pur essendo un film conclusivo, lascia nello spettatore vuoti e suscita domande a cui probabilmente non verrà mai data una risposta. Una di questa domande potrà sembrarvi surreale ma è del tutto lecita: dov’è Michael Myers? Sebbene nei precedenti capitoli la figura di Myers mostrasse fortemente l’abuso che ne è stato fatto, risultando a tratti più comica che spaventosa, qui non ci viene neanche data la possibilità di dare un giudizio alla sua performance, in quanto in circa 2 ore di film compare in scena per 15 minuti scarsi. L’attenzione si sposta per quasi tutto il tempo verso quello che ci viene fatto intuire in un primo momento essere il suo possibile successore, Corey Cunningham, ragazzo che dopo essere stato accusato di omicidio, in seguito alla tragica morte di un bambino a cui faceva il baby sitter, comincia a essere giudicato e emarginato, un’isolamento che lo rende incline sempre di più a accumulare quella rabbia che si trasformerà in una furia omicida. Tematiche interessanti, se solo fossero state trattate con più profondità e non lasciate a un livello superficiale per far spazio alla solita e banale soluzione romantica, che qui tra l’altro comprende Allyson, nipote di Laurie, co-protagonista della saga ,che ha visto morire tutta la sua famiglia a parte Allyson per mano di Myers.

Ci si potrebbe soffermare per ore sulle forzature delle situazioni e dei dialoghi che ruotano intorno a questa scelta, tanto che gli stessi sceneggiatori si sono resi conto, anche se tardi, che magari fosse opportuno mostrare il vero Myers e non il suo apprendista.
Anche in questo caso, il risultato che viene fuori è decisamente mediocre: un Michael Myers goffo, lento, vulnerabile più delle sue vittime, che nei precedenti film era sopravvissuto a qualsiasi cosa e che qui, oltre che morire definitivamente, viene anche umiliato.
Del personaggio introdotto per la prima volta al cinema da Carpenter nel ’78 dopo la visione di questo film  non rimane che una macchietta, la quale è stata ancora una volta sfruttata e per di più scimmiottata pur di trarne guadagno, tendenza che è caratteristica del cinema horror contemporaneo. Come è possibile che il genere sia rimasto fermo agli anni ’80 e 90′ non riuscendo a proporre nuovi contenuti? Sicuramente il nascondersi dietro brand con un grande impatto e già affermati , sia attraverso seguiti improbabili e reboot mal riusciti, può essere una motivazione, o anche il fatto che, come nel caso di Halloween con Jamie Lee Curtis, il cast di attori anziani e stanchi di interpretare un ruolo non idoneo con la loro età  limiti la possibilità di far emergere nuovi talenti, magari in nuove pellicole che non hanno la paura di osare e di mostrare un’identità propria, che si differenzi dalle altre. Purtroppo però questo non avviene, ed ecco che ci troviamo di fronte a produzioni come questa o di altre saghe come Venerdì 13, Non aprite quella porta o Nightmare in cui l’essenza dell’opera, se ancora presente, è alla mercé del denaro e perciò del lato artistico horrorifico non rimane traccia.
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