Di Valeria Pacifico. Quando si parla di bellezza, ogni diversa cultura è in grado di associare il termine ad un’idea: la preistoria ci lascia statuette che mostrano donne con un corpo prosperoso, l’antica Grecia rimanda agli ideali platonici di armonia matematica del corpo, durante il medioevo si guardava, come in stato ipnagogico, alla donna angelo che rimandava alla pudicizia e alla gentilezza d’animo (come la Beatrice di Dante).
Il punto è che qualsiasi simbolo di bellezza citato è tale perché sta al posto di qualcos’altro e questo qualcos’altro rimanda sempre alla sfera dell’utile, come la fertilità, o all’idea di divino. Nel nord della Thailandia, ad esempio, le donne della popolazione Kayan indossano degli anelli di ottone attorno al collo – gli conferiscono il nome di “donne giraffa”- che, ad oggi, è sia un ornamento estetico che un legame con la cultura, ma nel passato era una tecnica adottata per prevenire che gli animali attaccassero la parte più sensibile del corpo: il collo.
Con l’avvento di modernità e globalizzazione si è andati incontro ad una omogeneizzazione del gusto per tutti quelli strati di società sparsi nel mondo e tra loro collegati e costantemente influenzati. L’idea di fondo è che ci siano delle caratteristiche canoniche e inalterabili come base in ogni corpo. É come se stessimo parlando di una tela: questa deve essere delle giuste dimensioni, del giusto colore e del giusto materiale; non importa comunque se il pittore che la utilizzerà sarà Picasso o un bambino di cinque anni, e tanto meno importa che siano tempere di marca a colorarlo o schizzi di colore, l’importante è che la tela sia perfetta quando confezionata.
La perfezione diventa, in una società che vuole costantemente progredire, la meta finale da raggiungere, il santo Graal, l’amore morboso che porta all’ossessività.
Rispetto agli anni Cinquanta, l’industria della perfezione ha fatto passi da gigante: si passa dal primo rasoio Gillette, necessario a rimuovere peli superflui per ottenere una pelle perfetta, a decine di prodotti per viso, corpo e capelli: intrugli, sieri, oli e protettori, tutti di assoluta necessità se si vuole evitare che il corpo mostri i segni del tempo. E poi yoga, pilates, dieta chetogenica e rifiuto del make-up o di qualsiasi artificialità che possa spostare l’asticella dell’apparenza da ‘naturale clean-girl’ a ‘barbie vittima della cosmesi e del patriarcato che la vuole costringere a nascondersi sotto del trucco’, perché non sia mai che nel raggiungimento della perfezione, si cada in tutto ciò che può dare l’idea di sporco, perché si sa, “il troppo stroppia”.
E allora la ragazza sopravvissuta al covid, vuole essere “vera”, non ha più bisogno di passare le ore ad applicare fondotinta e correttore, perché lei chiaramente non ha né imperfezioni né occhiaie, non le serve decidere quale rossetto comprare, lei è armata solo di burro cacao, e soprattutto, non ha bisogno di mettersi in mostra, perché sarà la sua naturalezza a farla vincere nella selezione naturale.
Ciò che però lei non sa (o che decide di ignorare), è quanto anche lei, come l’altra ragazza dalla quale tanto si distacca perché vittima della società di massa, sia schiava del consumismo. Ciò che non comprende è che, tutto quello che l’altra ragazza spende in trucchi per apparire (secondo il suo gusto) perfetta, altrettanto la nostra clean-girl lo spende in prodotti di skincare i quali hanno lo stesso rischio del make-up di distruggere tutte le barriere protettive che la pelle stessa ci mette tanto a produrre. Alla fine dei conti, questo suo Life Style le è stato imposto dalla legge della domanda e dell’offerta, è stata anche lei influenzata da qualcuno a partecipare a questo trend, e proprio come la sua acerrima nemica, è stata assoggettata a tal punto da pensare di non essere succube dell’ossessione compulsiva per la perfezione.
Ma cos’è la perfezione se non un’irrealtà? Questa non può esistere perché solo esistendo non sarebbe se stessa.
Tornando all’esempio della tela: non esiste una tela che non abbia un piccolo difetto (anche invisibile ad occhio nudo), potete controllarle tutte. Questo perché, qualsiasi cosa che l’uomo possa fare o anche pensare, già perché fatta o pensata da un essere imperfetto, è di per sé imperfetta.
Era la stessa dea della bellezza, Venere, a non essere perfetta: aveva infatti sette difetti i quali, proprio per il fatto di renderla ‘imprecisa’, la rendevano piacente.
L’uomo s’impone di vivere in una costante tensione verso ciò che non può ottenere, perché il solo fatto di non poter fare qualcosa lo mette in stato di allerta; ma in questo caso, il raggiungimento di una cosa che non è raggiungibile, vale la pena di essere perseguito? Oppure bisognerebbe resettare il credo e spingerlo verso l’idea che non è necessario essere perfetti per essere belli, ma piuttosto essere sbagliati per essere giusti?