Di Martina Sallusti. E’ un gesto estremo: qualcuno che decide per la vita di qualcun altro, ma ancora più nello specifico, una madre che decide, l’inizio e la fine della vita di un figlio. Negli ultimi anni, casi di donne che uccidono i propri figli sono saliti all’attenzione della cronaca; questi episodi, che colpiscono la sensibilità sociale in modo particolare, pongono interrogativi su fattori psicologici, sociali e culturali che possono portare a tali tragedie.
Le cause alla base di gesti simili sono molto complesse e profonde. In molti casi, le madri che arrivano a compiere atti di infanticidio soffrono di gravi disturbi psicologici, come la depressione post-partum o psicosi che non vengono diagnosticate o trattate in modo adeguato. La sindrome di Medea, un termine usato per descrivere le madri che uccidono i propri figli come atto finale di disperazione, si manifesta in contesti di profondo disagio emotivo, dove la madre percepisce i figli come un ostacolo o, come “vittime” da salvare dalla propria sofferenza.
Un esempio  è il caso di Andrea Yates, la donna americana che nel 2001 annegò i suoi cinque figli.
In Italia, diversi casi analoghi hanno scioccato il Paese negli ultimi anni, come quello di Annamaria Franzoni, accusata e condannata per l’omicidio del figlio Samuele; il suo caso sollevò discussioni accese sulla capacità dello Stato di intervenire e prevenire queste tragedie.
e’ importante non liquidare l’infanticidio come semplice “gesto di follia”. Alcuni critici, infatti, sostengono che alla radice di questi crimini si nascondano anche fattori strutturali: la mancanza di supporto economico, l’isolamento sociale, e la pressione psicologica spesso insostenibile sulle madri. Quando la famiglia, la società e le istituzioni non riescono a fornire il sostegno necessario, alcune donne vedono il gesto estremo come l’unica via d’uscita. Questo porta a riflettere non solo sull’individuale malessere psicologico, ma anche sul ruolo di un sistema sociale che troppo spesso abbandona le persone più vulnerabili a loro stesse. Questa è una società in cui si chiede costantemente alle madri di essere all’altezza di aspettative irrealistiche, manca spesso la comprensione e l’empatia verso chi non riesce a sostenere il peso di queste pressioni. Le donne che non riescono a gestire la depressione post-partum o altre forme di stress psicologico spesso soffrono in silenzio, isolate da una società che non accetta facilmente il concetto di “madre imperfetta”. Questo porta a un’escalation del disagio, che può culminare in tragedie come quelle viste negli ultimi anni. Con questo, ci tengo a precisare peró, che non intendo giustificare tali gesti, per nessuna ragione, soprattutto perché è un gesto di estremo egoismo, per salvarsi da una profonda depressione, o incapacità di muoversi all’interno di una società così dura, si leva la vita a chi, magari, sarebbe stato in grado di vivere in maniera giusta ed adeguata, pronto anche ad aiutare la propria madre ad uscire da un tunnel così buio.