Di Giorgia Medrihan. Filippo Turetta, 22 anni, ha ucciso la giovane fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre scorso e venerdì 25 ottobre la sala del tribunale era carica di tensione e attesa per la sua sentenza. Il ragazzo accusato di omicidio ha parlato davanti ai giudici, sollevando più domande che risposte e alimentando il risentimento di chi ha subito le conseguenze del suo atto, in questo caso la famiglia di Giulia.

“Non volevo andasse in quel modo,” dice Filippo, cercando di giustificarsi piuttosto che assumersi pienamente la colpa, suscitando rabbia nei presenti che hanno notato un giovane che, pur avendo causato dolore e sofferenza, sembra eludere la vera responsabilità delle sue azioni.

Le emozioni in aula erano chiare. Molti dei presenti si sono sentiti frustrati dalla continua retorica di un ragazzo che, invece di mostrare pentimento, ha cercato di spostare l’attenzione su di sé. La sua testimonianza ha fatto uscire allo scoperto un ragazzo che sembra voler più salvare la propria immagine che a rendere giustizia a chi ha subito le sue azioni.

Le sue 40 pagine piene di scuse e promesse di cambiamento hanno rivelato un’impassibilità sconcertante: “Ho fatto degli errori, ma chi è che non li fa?” dice, cercando di minimizzare e attenuare il suo comportamento.

La testimonianza di Turetta ha messo in luce il dolore della vittima, che si è trovata impotente di fronte a un sistema che sembra dare più spazio alle giustificazioni di un colpevole piuttosto che alla sua voce. “Ogni parola che ha detto oggi è un insulto a chi ha sofferto,” ha commentato un familiare della vittima, esprimendo il malcontento che molti hanno provato nell’ascoltare le sue scuse.

È inaccettabile che un assassino possa avere il coraggio di parlare di ingiustizie, mentre il dolore delle vittime resta inascoltato. È tempo che la società smetta di tollerare queste giustificazioni e inizi a dare ascolto alle vere vittime, affinché la giustizia non diventi solo un’altra parola vuota nel vocabolario di chi ha sbagliato. La rabbia di chi ha subito deve trasformarsi in un grido di giustizia, affinché le parole di un colpevole non possano mai oscurare il dolore di chi ha sofferto.

Ogni volta che un colpevole si presenta in aula con una storia che minimizza le sue azioni, è come se stesse colpendo di nuovo altre vittime. La società spesso dà ai colpevoli la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti, mentre le vittime restano invisibili e dimenticate. È fondamentale che le voci delle vittime siano amplificate, che le loro esperienze non vengano oscurate dalle scuse di chi ha sbagliato.

Non dobbiamo più permettere che la narrazione si sposti da chi ha subito a chi ha inflitto il dolore. È tempo di cambiare, di dare spazio alla verità e alla giustizia, affinché ogni vittima possa finalmente ricevere la dignità, il riconoscimento e il rispetto che merita.