Di Giulia Frigeri. Una nuova tragedia familiare si consuma tra le mura di una casa; Bojan Panic, 19 anni, non ha avuto scelta: ha dovuto affrontare un atto disperato. A Mezzolombardo, in Trentino, un giovane, incarcerato e poi rilasciato lo scorso 4 aprile, ha preso la vita del padre, Simeun, con la sola intenzione di fermare il suo violento dominio sulla madre, da anni sottoposta a torture fisiche e psicologiche. Questo non è solo un fatto di cronaca: è l’ennesima denuncia di un sistema che non ha saputo fermare la spirale di abusi che distrugge vite.
Sembra impossibile pensare che un figlio possa arrivare a tanto, ma non c’è giustizia che possa spiegare la sofferenza che Bojan ha dovuto sopportare nel vedere sua madre, ogni giorno, succube dalle mani del padre. La vera domanda, però, non è se questo gesto sia giusto o sbagliato, nel racconto di Bojan, non c’è alcuna giustificazione per l’omicidio. C’è, però, la certezza di un atto dettato da una disperazione senza fine, dalla sensazione che, dopo aver visto la propria madre distrutta, non resti altra scelta.
Ogni giorno, donne e bambini sopportano in silenzio il peso della violenza domestica. Questo episodio deve essere un campanello d’allarme che ci scuote dalla nostra apatia, dal nostro distacco. È ora di fare i conti con le vittime di violenza, con il fatto che non basta solo educare a non farlo, ma bisogna creare una rete di protezione, una cultura che difenda la vita e non lasci che la violenza venga ignorata.
Quello che è accaduto a Mezzolombardo non deve essere dimenticato. Ogni giorno che lasciamo passare senza fermare il male che vive dentro le nostre case, diventiamo complici di un sistema che ha fallito. Non possiamo più voltare la testa dall’altra parte, è tempo di dire basta. Oggi è Bojan, ma domani potrebbe essere qualcun altro.