Di Aurora Calicchia. Il debutto di Greta Scarano, regista italiana, non potrebbe essere più incisivo: La vita da grandi, uscito nelle sale il 3 aprile, riprende la storia vera di due fratelli, Damiano e Margherita Tercon.

Non è solo la scelta di un tema toccante come quello dell’autismo a convincere il pubblico, ma anche e soprattutto il modo in cui questo è stato intrecciato alla complessità della vita e agli imprevisti che la caratterizzano: Irene, sorella di Omar, incarna perfettamente il disagio dei cosiddetti “glass children”, cioè i fratelli o sorelle di un bambino con disabilità; è palese sin dalle prime scene, infatti, che Irene si senta fuori luogo nella sua stessa famiglia: un disagio doloroso, profondo, tagliente. Non c’è rimedio pratico all’invisibilità di cui ci si sente vittima, alla consapevolezza che la nostra presenza non sia di particolare importanza per nessuno, che la nostra vita e ciò che ci riguarda siano poco interessanti per gli altri, anche per quelli che ci sono più vicini: tutto questo viene spiegato lucidamente nel film, che riesce, con successo, a non cadere nel pericoloso baratro dell’appiattimento tematico, ma anzi, tesse in modo interessante diversi spunti di riflessione. 

D’altro canto, sappiamo che il focus principale sia quello sull’autismo: Omar, 40enne, viene dipinto inizialmente come un personaggio eccessivamente dipendente dalla madre, come incapace di riuscire a sopravvivere in modo autonomo; ma, è il ritorno della sorella che sconvolge il punto di vista dello spettatore.

In effetti, non è necessario molto tempo per comprendere che la situazione in cui egli si trova è frutto della paura divorante dei suoi genitori, che, per amore e cattivi pregiudizi sulla “malattia” del figlio, lo hanno assistito in modo sbagliato, credendo che fosse troppo limitato per diventare indipendente. 

Eppure, proprio quando la vita di quest’uomo ci sembra vinta dalla mediocrità e dalla rassegnazione, ecco che il rapporto fratello/sorella supera ogni aspettativa: il “manuale per diventare adulti” diventa il simbolo del riscatto, della forza e della sete di intraprendenza di Omar, da un lato; delle paure, dell’impotenza e dell’ansia di sua sorella, dall’altro. Insieme, però, dimostrano a tutti che l’amore e la fiducia sono la chiave per andare oltre qualsiasi limitazione. Insieme dimostrano che l’autismo non è una malattia. 

Forse, la forza di questo film risiede proprio nella capacità di analizzare tematiche così delicate con la giusta dose di sarcasmo e di realismo. Il “gangsta rapper autistico” riscatta, finalmente, la propria autonomia, grazie alla stessa sorella con cui non avrebbe voluto convivere neppure per una settimana: “La vita da grandi” non rappresenta un banale film sull’autismo, bensì un grido di speranza per coloro i quali credono che convivere con la diversità sia necessariamente una condanna.

Irene e Omar sono l’esempio che solo grazie all’accettazione di sé e degli altri si può vivere serenamente, che con la fiducia si abbattono i pregiudizi e che, anche chi viene reputato “diverso”, può insegnarci a vivere; ed è probabilmente questo il messaggio più forte e significativo: Omar aiuta la sorella, e tutti noi, a capire cosa significhi davvero essere felici. A capire che, dopotutto, essere diversi è un punto di forza.

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