Di Eleonora Bova. A volte il dolore arriva in silenzio, dopo il rumore delle fiamme. Dopo le grida, il panico, i vetri infranti e i passi affrettati. Resta l’eco di un respiro interrotto, di una stanza che fino a poco prima ospitava sogni, promesse, affetti lontani. E poi niente. Solo fumo.Nella notte tra il 29 e il 30 aprile, in un luogo fatto per accogliere e far riposare, un hotel di Calcutta, la vita ha deciso di mostrare il suo lato più fragile. Tra mura che custodivano storie diverse, un fuoco improvviso ha spezzato quindici di queste storie. Alcune troppo brevi, come quelle dei bambini che non sapremo mai cosa avrebbero amato, chi sarebbero divampati. Eppure, nel buio qualcuno è stato tratto in salvo. Qualcuno ha visto la luce da un tetto, qualcuno ha trovato una mano tesa. È poco, eppure è tutto, quando si parla di vita. Le fiamme non hanno fatto distinzioni, hanno preso e lasciato un vuoto, un silenzio che pesa più del rumore dello stesso disastro.
“Addolorato per lla perdita elle vite umane”, ha detto il premier Narendra Modi. Ma le parole, anche quelle più sincere, non bastano mai a ricomporre ciò che il fuoco ha dissolto. Resta il lutto, la memoria, e quella ferita collettiva che una città come Calcutta conosce fin troppo bene.
E mentre le ceneri si raffreddano, resta l’immagine di quelle finestre illuminate nella notte: piccole lanterne di speranza, e insiem, simboli di fragile equilibrio tra ciò che abbiamo e ciò che possiamo perdere in un istante.
Le parole dei potenti, i numeri dei bollettini, non riusciranno mai a raccontare ciò che davvero si è perso in quella notte. Ma forse, se restiamo in silenzio per un momento, possiamo sentire quel battito spezzato. E imparare, anche solo per un attimo, a dare più valore a ogni giorno che ci è concesso.