Di Aurora Calicchia. Risale al primo maggio, giornata di grande celebrazione, una notizia aberrante: una ragazza calabrese denuncia coloro che l’hanno stuprata ripetutamente per quasi due anni, ma invece di ricevere supporto e protezione, viene frustata e seviziata dalla propria famiglia. Un coraggio, il suo, che è stato soffocato dall’omertà di una realtà permeata dalle organizzazioni mafiose; ha osato infrangere la legge del clan più antico: quello del sangue. E per questo è stata punita, zittita; non da sconosciuti, ma da sua madre e da suo cugino. 

È questa la dimostrazione di come le logiche della cultura patriarcale in cui viviamo vengono interiorizzate anche e soprattutto dalle donne, che invece di prendere consapevolezza della propria condizione, decidono di seguire in modo ortodosso un’usanza che le punisce e le mette al loro posto. 

In questa tragica storia si intrecciano troppe forme di violenza; e se denunciare è un atto di estremo coraggio anche per chi ha al proprio fianco un sostegno, ecco che decidere di rivendicare la propria dignità, in un contesto asfittico e malsano, diventa impossibile: per la mentalità mafiosa la giustizia non si cerca nelle aule dei tribunali, ma si soffoca tra le mura di casa. Le violenze si lavano in silenzio. Le donne devono subire, perché denunciare equivale a macchiare il proprio onore. E chi esce dallo schema, diventa il vero problema.

È questo il volto più sporco e vigliacco della mafia: non solo quella dei traffici e delle minacce, ma quella che trasforma l’amore familiare in uno strumento di controllo. E quando questo viene a mescolarsi alle logiche di un sistema maschilista come quello che viviamo tutti, ecco che a una madre sembra normale picchiare sua figlia in nome del “decoro” e della “reputazione”.                                                                                         Una storia, questa, che fa riecheggiare l’enorme coraggio di Franca Viola, stuprata sessant’anni fa e messa nelle condizioni di dover sottostare al “matrimonio riparatore”. Lei disse “no”: per la prima volta una donna si ribellava a un sistema costruito sull’oppressione delle donne stesse. Aveva 17 anni. Ma rifiutò di sposare il suo stupratore, come imponeva l’orrenda consuetudine, dando uno schiaffo a un’intera cultura patriarcale.  E noi ci raccontiamo da decenni che quello fu l’inizio di un cambiamento. Ma se oggi una ragazza viene frustata da sua madre per aver denunciato uno stupro, allora forse quel cambiamento è stato solo una menzogna utile a placare le coscienze.                       Eppure, c’è un silenzio assordante. Nessuna manifestazione, nessuna indignazione collettiva. Si parla di “cultura dell’omertà” come se fosse una malattia genetica, invece di chiamarla col suo vero nome: patriarcato, controllo, paura del disonore. Una logica tribale che fa a pezzi le donne due volte: prima quando subiscono violenza, poi quando osano dirlo. E no, non è un caso isolato, ma è lo specchio di un’Italia che ancora non vuole guardare le proprie donne negli occhi. Che ancora le vuole zitte, docili, sacrificate. Se una ragazza viene frustata per aver denunciato, non è solo colpa di chi ha alzato la mano. È colpa di una cultura malata, che ancora oggi preferisce salvare l’onore invece che la verità. Sessant’anni dopo Franca Viola, siamo ancora qui a contare le cicatrici del coraggio. E finché chi parla verrà punita, saremo tutti complici del silenzio.