Di Eleonora Bova. C’è un silenzio diverso, oggi, tra gli alberi del Parco Nord di Milano. Un silenzio che non appartiene alla quiete naturale di un pomeriggio di primavera, ma a qualcosa di più profondo, più difficile da dire. A volte, quando il dolore arriva senza bussare, non servono i dettagli né la cronaca precisa dei fatti. Servono invece le pause, gli sguardi bassi, le domande che non avranno risposta.
Chamila Wijesuriya non c’è più. La sua vita si è interrotta in un laghetto che avrebbe dovuto riflettere solo cieli sereni e sogni leggeri. Era una donna, una collega, una presenza che – forse – molti davano per scontata. Di lei oggi rimane un nome che scivola tra le labbra con cautela, come si fa quando si parla di chi, improvvisamente, diventa assenza.
L’ultima volta era stata vista con Emanuele De Maria. E ora anche lui non c’è più, se n’è andato portandosi dietro il peso di un gesto che ha lasciato un’altra vittima, un altro dolore, un altro filo spezzato in una trama che nessuno avrebbe voluto scrivere. Nessuno sa – e forse non sapremo mai davvero – cosa si sia spezzato dentro di lui, quale oscurità abbia avuto la meglio.
È facile cedere al bisogno di spiegazioni, aggrapparsi ai resoconti, cercare risposte in una sequenza logica di eventi. Ma a volte il dolore sfugge alle logiche. Si insinua nei vuoti, nei silenzi. E allora resta solo la possibilità di ricordare Chamila per ciò che era, oltre il fatto di cronaca: una vita che meritava gentilezza, ascolto, e forse una mano tesa nel momento giusto.
Nel parco, tra gli alberi che oggi sembrano più immobili del solito, il vento porta con sé un senso di lutto collettivo. Per Chamila, per chi resta, per tutte quelle vite che si spezzano nel silenzio, senza che nessuno se ne accorga in tempo.