Di Natalia Usciuc. Un luogo di pace e relax si trasformò improvvisamente in uno scenario di devastazione che causó 29 vite spezzate.Era il pomeriggio del 18 gennaio 2017 quando una valanga di neve e ghiaccio travolse l’Hotel Rigopiano a Farindola, in provincia di Pescara. Quelle ore, cariche di preoccupazione e impotenza, restano impresse nella memoria collettiva come un capitolo doloroso della storia recente del nostro Paese.

La recente condanna dell’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, a 1 anno e 8 mesi per falso e rifiuto di atti d’ufficio, riporta alla luce ferite che non sono mai realmente guarite. La procura, che continua a chiedere giustizia per le vittime, aveva spinto per rivalutare le accuse più gravi di omicidio colposo, lesioni colpose e depistaggio.

Non è solo una questione legale, ma un grido che viene dalle macerie di quell’albergo.Le vittime e i loro cari meritano risposte, meritano che quel giorno non venga dimenticato. Il freddo di quella valanga, i soccorsi tardivi, decisioni discutibili e un’intera nazione che, in quei momenti, tratteneva il respiro e pregava per quelle persone.Non si cerca vendetta, ma un riscatto morale per chi ha perso tutto. Eppure, in un processo dove la giustizia deve fare i conti con la burocrazia e le responsabilità frammentate, il rischio è che si perda di vista ciò che conta davvero, l’essenza umana di chi ha vissuto questa tragedia.

La conferma delle condanne per Paolo D’Indecco e Mauro Di Blasio, vertici della Provincia di Pescara, rappresenta un passo avanti, ma non basta.

A sette anni da quel tragico pomeriggio, il ricordo delle vittime è ancora vivo. Rigopiano non è solo un luogo, ma un simbolo. È il volto dei genitori che hanno perso i figli, degli amici che aspettavano telefonate mai arrivate, di un’Italia che vuole imparare da queste ferite per non ripeterle.

La neve si è sciolta, ma il dolore rimane. Perché ogni sentenza non è solo un atto giuridico, ma un messaggio a chi è rimasto. E noi, come società, dobbiamo assicurarci che non cada nel silenzio, perché la memoria è l’unico antidoto contro l’indifferenza.