Di Nayab Khan. C’è un momento, nella vita, in cui una persona smette di essere solo se stessa.
Succede quando il suo nome, all’improvviso, comincia a pesare su tante coscienze. Quando il suo volto diventa una presenza dolce e dolorosa in mezzo alle nostre giornate. Quando tutto quello che avrebbe potuto essere si rompe, lasciando un vuoto che non è solo assenza, ma domanda, ferita, eco.
Ilaria era una ragazza come tante, e proprio per questo oggi è molto di più.
Era fatta di passi veloci tra le aule dell’università, di sogni detti sottovoce, di ansie prima di un esame, di una mano che cerca conforto, di musica nelle cuffiette, di caffè presi in fretta. Era fatta di gesti che nessuno racconta, perché troppo normali per finire nei giornali. Eppure oggi tutto questo manca, e quel “troppo normale” si è trasformato in qualcosa di sacro.
Ilaria non è solo il dolore del suo ultimo giorno. È *la vita intera che ci lascia addosso*. È quella parte di noi che si accorge, troppo tardi, che non possiamo dare per scontato nulla: né l’amore, né la libertà, né la possibilità di vivere in pace.
Il suo nome oggi lo pronunciamo piano. Con rispetto. Con rabbia. Con un amore che nasce anche senza averla conosciuta. Perché ognuno di noi ha dentro qualcuno come lei: una sorella, un’amica, una compagna di banco, o magari noi stessi. Ecco perché Ilaria ora non è solo una ragazza. È un pezzo di anima collettiva. È una voce che ci resta dentro. È una carezza che non arriva più, ma che continuiamo a sentire.
C’è chi dice che non dobbiamo ridurre queste storie a simboli. Ma forse, nel profondo, *abbiamo bisogno di ricordarla così*: come luce, come battito interrotto che ci chiede di cambiare strada. Non con paura, ma con coscienza. Con presenza.
Perché la violenza non è solo un gesto. È *l’assenza di ascolto, di educazione, di amore vero*. È tutto quello che non viene detto prima, tutto quello che viene taciuto fino all’ultimo istante.
Ilaria non è solo vittima. È vita che non si è arresa. È una domanda aperta nel cuore di chi resta.
E noi, adesso, abbiamo il dovere di rispondere.