Il paradiso probabilmente (It Must Be Heaven) è un film del 2019 diretto da Elia Suleiman.
La pellicola è stata presentata il 24 maggio 2019 e candidata per la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2019. Al festival francese ha ricevuto il premio FIPRESCI come il miglior film in concorso e ha anche ricevuto una menzione speciale. Narra la storia di Es, (Elia Suleiman) che, fuggito dalla Palestina alla ricerca di una patria alternativa o di una terra che lo accolga, si renderà conto che il suo paese d’origine lo segue come un’ombra. La promessa e la speranza di una nuova vita si trasformano rapidamente in una commedia dell’assurdo, per quanto si allontani dal suo paese e visiti nuove città, da Parigi a New York, c’è sempre qualcosa che gli ricorda casa.
Il film è un racconto, tra il comico e l’assurdo, della ricerca e dell’esplorazione dell’identità, della nazionalità e dell’appartenenza, che pone una domanda fondamentale: dov’è il posto in cui ci possiamo sentire davvero “a casa”?”
Come nei miei precedenti film ci sono pochi dialoghi; quello che viene detto assomiglia a monologhi per infondere ritmo e musicalità.”. Purtroppo nel momento in cui, in un lungometraggio, il regista di Nazareth esce dalla sua terra il pregio dell’astrazione che contraddistingueva un film come Il tempo che ci rimane si trasforma in un boomerang. Suleiman vorrebbe farci riflettere su un mondo ormai divenuto surreale anche nella sua quotidianità e per farlo inanella una serie di sketch che vorrebbe far ridere o almeno sorridere e ci riescono purtroppo molto raramente (in uno di essi il successo è attribuibile in gran parte a uno speciale passerotto).
A questo va aggiunto, solo come annotazione, che la divertente sequenza iniziale ambientata in uno dei luoghi sacri cari alla cristianità sarebbe stata ben più coraggiosa se collocata in uno dei centri di culto dell’Islam.
Sarebbe stato interessante prendere nota delle reazioni. Ciò che però risulta più controproducente per la messa in scena del regista di Nazareth è che proprio le rarissime sequenze che comportano dei dialoghi finiscano con l’essere decisamente le più efficaci (una per tutte quella nel taxi newyorkese). È un segnale d’allarme che dovrebbe far riflettere: uno stesso tipo di azione passiva (propria della recitazione di Suleiman) non necessariamente funziona ovunque. Il paradiso non si trova dappertutto.