Di Daiana Cestra. Gli anni più belli, Regia di Gabriele Muccino. Un film con Pierfrancesco Favino, Micaela Ramazzotti, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Francesco Centorame e Emma Marrone.
Roma, primi anni Ottanta. Giulio, Paolo e Riccardo hanno 16 anni e tutta la vita davanti. Giulio e Paolo sono già amici, Riccardo lo diventa dopo una turbolenta manifestazione studentesca, guadagnandosi il soprannome di Sopravvissuto. Al loro trio si unisce Gemma, la ragazza di cui Paolo è perdutamente innamorato. In realtà tutti e quattro dovranno sopravvivere a parecchi eventi, sia personali che storici: fra i secondi ci sono la caduta del muro di Berlino, Mani Pulite, la “discesa in campo” di Berlusconi e il crollo delle Torri Gemelle, per citarne solo qualcuno. E dovranno imparare che ciò che conta veramente sono “le cose che ci fanno stare bene” e che certi amori – così come certe amicizie – “fanno giri immensi e poi ritornano”.
Se citiamo un cantautore è perché Gli anni più belli segue volutamente il registro di concept album come “Piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, e infatti Baglioni viene evocato nel film ben tre volte, con “E tu come stai?”, “Mille giorni di te e di me” e l’inedito che accompagna i titoli di coda. Il che, nella prima parte del film, è quasi letale: i giovani attori che interpretano i quattro ruoli principali, benché molto bravi (specialmente Alma Noce e Andrea Pittorno) sono spinti a recitare costantemente sopra le righe, alzando la voce, ansimando e soccombendo a quella frenesia ormai definibile come “muccianiana”. E a sottolineare ogni scena c’è la colonna sonora (di Nicola Piovani) spalmata “a palla”.
Tuttavia dopo la prima mezz’ora, e dopo l’entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un’identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un’onestà artistica credibile.
Gemma è invece il tasto dolente, non per via delle belle interpretazioni della già citata Noce e di Micaela Ramazzotti, ma per lo scarso lavoro di scrittura del suo personaggio, del quale si faticano a capire le motivazioni, e dal quale traspare la consueta visione del mondo mucciniana in cui le donne “la danno via con la fionda”, di solito per ragioni di sicurezza economica. Molto ben scritti invece (dallo stesso regista e dal cosceneggiatore Paolo Costella) i tre personaggi maschili che corrispondono ad altrettante identità degli autori, e soprattutto delineano insieme il profilo di una generazione. È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant’anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora nessuno aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una “metamorfosi socioculturale”, umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C’eravamo tanto amati, fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l’ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un’Italia molto diversa dalla nostra. Muccino fa leva drammaturgica su questo scarto epocale raccontandoci tre identità maschili depotenziate e destrutturate, come lo sono molti neocinquantenni di oggi. E alla fine ci si commuove profondamente, si riflette su dove siamo e perché, e su quali siano “le cose belle” cui stare attaccati come cozze quando il mondo intorno ci tradisce. Muccino racconta molto bene quanto sia facile sbagliare nella vita (soprattutto se è “una vita difficile”) senza valutare le conseguenze di errori cui sarà arduo porre riparo, ma (grazie anche al provvidenziale suggerimento di Favino, come ha dichiarato il regista in conferenza stampa) è ancora possibile rammendare la propria vita e trovare una consolazione finale, una rappacificazione con noi stessi e il nostro bilancio esistenziale.
E l’unico eroe è quello che ha capito da subito che non bisogna lasciare che sia il mondo a definirci.

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