Di Giorgia Di Stefano.
Sono tra noi, parlano la nostra lingua, si vestono e si comportano come noi, è davvero difficile trovarli e riconoscerli: sono bambini e giovani stranieri. Molti dei bambini che a prima vista o a primo ascolto potremmo considerare stranieri, sono invece nati in Italia e, di conseguenza, sono italiani. Per coloro che invece arrivano nel nostro paese dopo la nascita questo passaggio non è così immediato, ma è solo questione di tempo.Per coloro che nascono fuori dai confini italiani infatti i tempi di attesa possono andare dai 4 anni per i comunitari fino ai 5 per gli apolidi e ai 10 per gli stranieri.
Anche a seguito dell’ottenimento dello status di cittadinanza, per i fierissimi italiani, coloro che si ritengono “italiani veri”, sarà difficile considerare il neo-cittadino italiano come proprio connazionale. Il futuro di questi giovani è quindi incerto proprio a causa di queste barriere sociali che vengono costruite sulla base di un nome troppo difficile da pronunciare. Cosa succede infatti quando nella sala di attesa di un ospedale a riceverci è un medico con la pelle scura? O quando andiamo nello studio di un avvocato e lo sentiamo parlare con un accento dell’Europa dell’est? Tutti ci schieriamo contro il razzismo, ma quanti di noi si farebbero curare da quel medico o seguire da quell’avvocato senza nessun pregiudizio? D’altronde, non possiamo aspettarci molto da un Paese in cui al governo ci sono persone che per anni hanno discriminato anche gli stessi italiani, solo perché nati a sud della Pianura Padana.
Basta farsi un giro di qualche minuto in un’università italiana per vedere persone con origini diverse che lavorano fianco a fianco, per sentire lingue diverse nei corridoio, studenti in Erasmus o residenti in Italia che stanno lavorando duramente per un futuro qui. La difficoltà più grande per questi universitari non sarà discutere la tesi di laurea, bensì farsi spazio nel mondo del lavoro per cui stanno studiando e acquistare la credibilità che si meritano; un 110 e lode purtroppo non sarà sufficiente. Il clima politico-sociale in cui ci troviamo vuole imporci una visione estremamente negativa dello straniero quando in realtà, ad aumentare, non sono i crimini commessi dagli stranieri, bensì gli episodi di istigazione all’odio razziale e di violenza nei confronti di chi ha come colpa quella di essere nato in un altro paese. Dobbiamo combattere il pregiudizio secondo cui una donna straniera che entra in un’azienda non possa essere altro che una semplice segretaria o un’addetta alle pulizie, che un medico nero non possa essere tanto bravo quanto uno “italianissimo”, se non anche più bravo di colui che forse non ha fatto nessuna fatica per trovarsi lì perché suo padre o sua madre erano a loro volta medici.
Forse è un’utopia, ma noi giovani abbiamo il dovere morale di informarci, di conoscere e di abbattere i muri che le generazioni precedenti hanno costruito per non far entrare nessuno, abbiamo il potere di rivoluzionare una situazione quasi distopica e di far morire qualsiasi pregiudizio, l’importante è non aver paura di fare troppo rumore.