Di Sara Condrò. I Settori Giovanili del calcio italiano si trovano ancora oggi in un’evidente situazione di arretratezza rispetto agli altri paesi europei. Le priorità di questo sport infatti non sarebbero più quelle di formare giovani talenti e di affinarne tecnica e qualità, ma il calcio starebbe diventando un puro strumento di business e spettacolo. Ciò è dovuto in parte all’alta percentuale di guadagni (56%) delle squadre grazie ai DIRITTI TV, che negli altri paesi non supera il 35%.
Sempre per una questione di economia e convenienza, le società italiane importanti spesso preferiscono acquistare talenti già formati dall’estero piuttosto che investire nei propri settori giovanili. In Italia infatti non esiste una vera e propria attività di scouting, volta a monitorare qualsiasi contesto calcistico giovanile (non solo quello delle società), per estrapolarne giovani da crescere calcisticamente. Questo sta a testimoniare, come affermò anche Marcello Lippi in un’intervista, che l’idea di poter diventare campioni allenandosi nel prato sotto casa o giocando per le strade o nelle piazze si sta atrofizzando nel nostro paese, così che i giovani possono emergere soltanto per opera delle società che “spingono” il proprio atleta verso il professionismo, spesso costringendone i familiari a pagarne le spese e incassandone guadagni. Bisognerebbe dunque ripristinare la vecchia figura del talent scout che si incarica di scrutare ogni tipo di calcio giocato nelle varie città per poter ricreare un settore giovanile forte e puro.
Altro grande problema in Italia è la norma del vincolo sportivo che lega i giocatori alla propria società fino all’età di 25 anni. Molti si stanno battendo per l’abolizione o quanto meno la modifica di tale legge che porta sempre più spesso i giovani a lasciare questo sport per non essere costretti a giocare in una squadra nella quale non si trovano più a proprio agio. Ricordiamo che questa norma è ancora esistente solo in Italia ed in Grecia, e che molte famiglie si vedono costrette a pagare grosse cifre per “liberare” il proprio figlio dal club di appartenenza. La discussione per quanto riguarda la modifica di questa norma è giunta sino in Parlamento ma tuttora non si è trovato un accordo.
Certo è che oltre ai provvedimenti che andrebbero presi dall’altro, per poter tornare ad un calcio pulito senza corruzione è necessaria la partecipazione individuale di ogni componente: genitori, società e procuratori. Bisognerebbe mettere all’angolo “l’egoismo” dei guadagni personali e schierarsi tutti dalla stessa parte, per far regnare di nuovo la legge della meritocrazia su quella del business, per guarire un calcio malato ripartendo dalla bellezza del calcio puro e della sana competizione. Per fare ciò è necessario in primis rompere i legami tra genitore e società, e, in casi estremi, optare per il provvedimento dell’allenamento a porte chiuse, in maniera tale che nessun genitore possa conoscere le decisioni di un allenatore prima della partita ufficiale.
Riprendere le redini di un Settore così complesso non è semplice, ma se si portano avanti con tenacia alcune battaglie questi anni di business e corruzione del calcio potrebbero trasformarsi solo un piccolo contrattempo di uno sport che resta spettacolare, anche se strumento di spettacolo non è.

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