Di Francesca Sofia Rizzo. La memoria è il fondamento su cui basare il nostro agire futuro, è quanto di più prezioso noi possiamo avere come individui singoli e come umanità. Un’umanità che però tende a dimenticare di essere tale, a scordare l’ideale latino dell’ ”humanitas”, che dovrebbe esserne il carattere distintivo.
Un po’ di storia: il 27 gennaio del 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz in Polonia, ponendo fine a 12 anni di deportazioni in tutte le regioni sotto l’influenza nazista.
Oggi l’importanza della memoria è tanto più evidente quando alcuni gesti sembrano riportare indietro le lancette e catapultarci nello stesso incubo del passato: questa volta, però, abbiamo gli strumenti per poter riconoscere il pericolo prima che sfoci in tragedia.
Abbiamo visto pochi giorni fa comparire a Mondovì, in provincia di Cuneo, una scritta agghiacciante nella sua semplicità: ”Juden hier”, qui (c’è) un ebreo. Non siamo in un film di Benigni, né nella Germania nazista, siamo nell’Italia del 2020 e la scritta è stata impressa sulla porta di casa di Aldo Rolfi, figlio della staffetta partigiana Lidia Rolfi, deportata nei campi di sterminio.
E tra il marchiare con della vernice una porta o sottoporre alla gogna pubblica attraverso un citofono delle persone solo perché straniere, violando peraltro numerose leggi, dalla diffamazione alla violazione della privacy, il passo è breve.
Appaiono allora quanto mai azzeccate le parole pronunciate due settimane fa dalla senatrice a vita Liliana Segre, quando, all’invito di Matteo Salvini a partecipare al convegno della Lega contro l’antisemitismo, svoltosi il 16 gennaio, ha risposto: ”[…] la lotta all’antisemitismo non può e non deve essere disgiunta dalla ripulsa del razzismo e del pregiudizio”.
Questa visione è tanto più necessaria in questa fase storica, in cui le condizioni di disagio sociale spingono tanti, e in primis leader politici ipocriti e opportunisti, a indirizzare la rabbia verso un capro espiatorio, scambiando la diversità per minaccia.
Perché dobbiamo ricordare, e proprio in ciò giornate simili trovano il loro compimento, che ad essere deportati nei campi furono non solo ebrei, ma anche omosessuali, disabili, avversari politici, persone affette da disturbi mentali, altre minoranze etniche e chiunque, secondo l’ideologia nazista, non rientrasse nei canoni della razza pura, ariana, normale.
La responsabilità di tramandare la memoria va passata da generazione a generazione, in primo luogo tramite l’istruzione, e poi con ogni altro mezzo di diffusione della cultura. I sopravvissuti dei campi di concentramento, ormai molto anziani, sono sempre meno. Sempre minore sarà il numero di persone che potranno affermare di aver visto con i loro occhi le atrocità del nazifascismo. E per fortuna, nella speranza che queste non si ripetano mai.
Ma se in quella misura una tragedia simile non si è più verificata, non basta biasimare gli errori del passato e pensarci perfetti nel nostro presente. Perché l’antisemitismo e ogni altra forma di discriminazione non hanno mai cessato di esistere e bisogna essere in grado di saper riconoscere ancora oggi le mille forme, seppur forse più sottili e nascoste, che esse prendono non solo in paesi lontani, ma anche nelle nostre città. La giornata di oggi è un monito a non abbassare mai la guardia, a fermarci a riflettere per uscire dall’indifferenza.