Di Martina Sambucini. Davanti ad un caso di violenza la prima cosa specificata è lo stato fisico della vittima prima dell’accaduto.
Succede sempre; nei telegiornali, articoli di giornale, nei social: “era ubriaca, aveva una minigonna, girava sola di notte…” quasi fosse una “giustificazione” al reato
Involontariamente, o non, l’attenzione spesso si sposta su chi la violenza l’ha subita, non su chi l’ha compiuta; la vittima è colpevolizzata della sua sorte perché se l’è cercata, perché è stata imprudente. Ma nei confronti di chi?
Nei confronti di una cultura complice, che prevede la solidarietà maschile e patriarcale, piena di stereotipi maschilisti che non fanno altro che imprigionare la figura femminile, svalutandola, riducendola ad un oggetto sessuale. Prima di essere vittime di uomini le donne sono vittime di una sottocultura sociale che prevede che la violenza sessuale e l’abuso siano il prezzo che ci si attende di dover pagare in quanto donne esposte in uno spazio pubblico. Quasi che una donna dovrebbe stare attenta a come si veste, a come si trucca, a come cammina, a non tornare a casa da sola
Questo viene insegnato alle bambine, future donne che vivranno nell’ansia e disagio di doversi tutelare costantemente, come se fossero prede esposte ad un branco.
La condizione fisica di una donna non è un invito sessuale, una gonna non esprime consenso, l’assenza di un no non significa si. Il consenso è la chiave, dove non c’è consenso si parla di reato contro la persona, punto.
Educa allora i bambini, i futuri uomini del domani, al rispetto, all’ascolto, all’attenzione verso il prossimo, all’obbedienza… Questa è parità di genere.
Ci si perde ancora in luoghi comuni, senza rendersi conto che rappresentano una realtà bigotta, irreale, costruita, causa soprattutto di disparità di genere e di conseguenza di violenza.