Di Nicoletta Carli. Se sei donna puoi lavorare. Certamente, fin quando non rimani incinta. Quando decidi di “mettere su famiglia”, al massimo si può pensare ad un lavoro part-time. Anche in caso non fossi madre, comunque non potresti occupare proprio indistintamente tutte i ruoli che desideri. Perché sai, alcune mansioni proprio “non sono lavori da donna”. Ah si, anche se scegliessi di dedicare tutta la tua vita al lavoro, con molta probabilità non arriveresti a ruoli direttivi. E comunque anche se dovessi arrivarci, percepiresti una retribuzione inferiore a qualsiasi altro uomo, tuo parigrado.
Affermazioni sicuramente brusche, ma verità. Verità silenti. Realtà che tutti conoscono, ma che in pochi hanno il coraggio di ammettere. Soprattutto, quasi nessuno ha il coraggio di combattere. Il tasso di occupazione delle donne è stimato al 18% in meno rispetto agli uomini. La media del reddito complessivo delle donne è più del 20% inferiore a quella degli uomini. Potremmo citare illimitati studi statistici del medesimo tipo, ma sarebbe del tutto inutile. Perché per quanto da anni si facciano investigazioni statistiche sulla “gender equality” sul posto di lavoro, per quanto questa parola piaccia moltissimo alle più moraliste aziende che promettono miglioramenti, in realtà questi non arrivano. E numerosi sono i casi testimoni della scarsità di risultati in materia.
Potremmo citare la tempesta mediatica che si sta infrangendo sul grande marchio di moda, che porta il nome di Elisabetta Franchi. L’imprenditrice afferma di “aver messo” donne a lavorare nella sua azienda, ma solo over 40. “Io le prendo che hanno fatto tutti i giri di boa, sono al mio fianco e lavorano h24”. Tralasciando la concezione esasperatamente capitalistica del lavoro in generale, ci troviamo di fronte ad una donna, imprenditrice, per altro madre di due figli, che come gran parte degli imprenditori italiani vede la gravidanza come una malattia.
In generale, una donna arriva con molta più difficoltà ai vertici aziendali, perché viva l’idea che la famiglia e la gravidanza siano affari tipicamente femminili, nonché quindi i più impetuosi tra gli ostacoli tra la donna ed il mondo del lavoro. Inutile spiegare che una donna, formata e dedita al proprio lavoro e alla propria indipendenza, anche se con una famiglia, mai rinuncerebbe a quell’occupazione tanto agognata, raggiunta con unghie e denti. Si, agognata è il termine corretto. Perché nonostante le donne si laureino in media prima e con risultati migliori, fanno molta più fatica dei colleghi uomini a trovare impiego nell’ambito di competenza e guadagnano in media il 20% in meno, secondo il rapporto di genere realizzato da Almalaurea. Potenti donne e uomini d’affari, mentalmente fermi al Medioevo.
Ma non finisce qui. Quando non è la visione primigenia dell’ “angelo del focolare” a mettere i bastoni tra le ruote ad una donna in carriera, a subentrare è la concezione stessa della donna in una società ancora decisamente patriarcale. Stiamo parlando dell’antiquata, quanto becera, distinzione tra lavori da uomo ed impieghi per donne. Perché una donna secondo la società può fare l’infermiera, la commessa. Ruoli che abbiano a che fare con l’accudimento o l’organizzazione. Ma quando presenta un CV per assunzioni da magazziniere o da trasportatore, inutile dire che passa con facilità in fondo alla lista, se non direttamente nel cestino, poiché “una signorina in certi settori non sta bene” e sradicare stereotipi sociali non è semplice.
Il lavoro è dignità. La dignità è un diritto “uguale ed inalienabile, fondamento della libertà”, secondo il primo a Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Di leggi ce ne sono a profusione. In particolare in materia di gender gap sul lavoro negli ultimi anni. Ma il diritto all’uguaglianza non è comunque garantito. Una legge non rispettata, non è legge.