Di Angie Rakotomavo. Violentate la sera prima, sorrisi cordiali il giorno dopo; bisogno di affermazione; lividi mascherati dal trucco; dignità calpestata; ferite aperte. Queste le tragiche dinamiche ricorrenti tra le mura dove la violenza è di casa. Una violenza che non sempre si manifesta in forma fisica, ma può essere anche subdolamente proposta con locuzioni apparentemente amorevoli, ma volte a sminuire, ad inculcare l’idea che soli non si riesce. Quest’ atteggiamento paternalistico nei confronti del partner è il frutto di una radicata cultura maschilista che non giova a nessuno dei sessi coinvolti: lui vittima del suo stesso machismo; lei prigioniera di un’idealizzazione. Entrambi convinti che dietro le botte, gli strattoni, le sberle vi sia amore. Un “amore” incomprensibile agli occhi giudicanti dei vicini che sentono le urla, dei parenti che condannano il rapporto, di leggi che tutelano. Tutto un contesto che sembra pronto ad intervenire, ma che non si è curato di prevenire. Lo stesso contesto che urla allo scandalo, alla vergogna dinnanzi a episodi di femminicidio e violenza sulle donne, ma che nel quotidiano non si scompone davanti all’origine di ciò: l’oggettificazione della persona.