Di Alessandra Di Stefano. Un cinema in “bianco e bianco”. Lo scandalo del momento è

sicuramente dato dalla nuova sirenetta di Halle Bailey,
conosciuta sinteticamente come “la sirenetta nera”. Ne hanno parlato tutti, dagli influencer
alle più famose testate giornalistiche, poiché ha creato una spaccatura mondiale. Chi ritiene
sia necessario rendere il colore della pelle una caratteristica intercambiabile
randomicamente, come il colore dei capelli o degli occhi; chi invece preferisce essere legato
alla tradizionale “sirenetta caucasica” con occhi azzurri e capelli rossi.
Ci sentiamo nella condizione di dover creare dei limiti anche in un mondo marino popolato
da sirene, tritoni e streghe del mare. Vogliamo inserire le regole della nostra società anche in
quelle realtà dove tutto potrebbe accadere. Ho sentito parlare nell’ultimo periodo della così
detta melanina della sirenetta, la quale non potrebbe essere nera scientificamente secondo
alcuni. Beh, usare l’avverbio “scientificamente” parlando di un essere metà donna e metà
pesce mi sembra già eccessivo. Ma poi stiamo parlando del remake di un classico della
Disney con una storia inventata, non di un film di animazione basato sulla biografia di Maria
Antonietta. Fino a quando la comunità mondiale delle sirene non si risente di questa scelta,
c’è poco di cui parlare. Quello di cui dovremmo davvero preoccuparci è che le nostre
convinzioni sociali e culturali ci portano persino a bloccare la nostra immaginazione e
creatività.
Noi italiani abbiamo anche altre cose da dover affrontare. Per esempio l’assenza quasi
totale di personaggi extracomunitari nelle storie che raccontiamo. Quei pochi esempi,
riguardano condizioni sociali, come razzismo e politica. La televisione e il cinema, non
potendo risolvere chissà quanto politicamente, potrebbero quanto meno dare inizio ad un
cambiamento culturale. Perché la scelta della nazionalità di un personaggio non può essere
un dettaglio secondario in una storia, dove il fulcro centrale può essere un rapporto familiare,
una professione di successo o un viaggio? La risposta è semplice. In Italia non abbiamo una
situazione equilibrata con la comunità straniera, e per quanto noi neghiamo che questa cosa
sia concreta, non esiste una vera e propria integrazione. E il cinema, come da sempre, è
specchio della realtà e di un periodo storico. Ad oggi, in Italia, non esistono dottori afgnani o
giudici iraniani, a tal punto da essere rappresentati in un racconto. Mi correggo, non esistono
proprio. E se ci fossero, la storia non sarebbe verosimile, perché bisognerebbe trattare altri
temi, e lasciare spazio a delle circostanze uniche che si creano nella vita di un
extracomunitario in Italia. Perciò possiamo parlare della loro vita, solo come un qualcosa di
esotico e lontano da noi. Inoltre in quelle poche occasione dove invece sono presenti, sono
puntualmente portatori di un significato inclusivo, invece di essere normali protagonisti di
una storia o semplici personaggi di contorno. Raccontiamo storie di razzismo e ingiustizie,
come se quello fosse il loro unico mondo, dimenticandoci che anche loro vivono le nostre
stesse tappe della vita. In un film potrebbe essere un attore straniero a raccontare una crisi
matrimoniale, o per un ragazzo, l’ingresso al liceo. Dovrebbe diventare una scelta da poter
fare in modo superficiale, come in altre nazioni, in cui vengono selezionati unicamente gli
attori, in base alle loro capacità.
Quindi cosa è più inquietante, che sulla RAI non ci sia un “maresciallo rocca” congolese o
che non ci sia nella realtà? Dagli anni ‘80, a noi italiani piace accostare lo “straniero” al
concetto di esotico. In quegli anni tutte avevano una cotta per Kabir Bedi, che, date le sue
origini indiane, poteva “solo” interpretare il ruolo del misterioso pirata Sandokan (Sandokan,
1976). Oggi nelle serie tv moderne abbiamo “Nero a metà” (2018), in cui Miguel Gobbo Diaz,
attore dominicano, invece di narrare una storia che non apra necessariamente un siparietto
sulla sua etnia, deve racontare il triste passato di un orfano che ha perso i genitori durante il
naufragio del classico “barcone”. Ma proviamo ad allargare lo scenario in un contesto
mondiale. In America, nell’infinita serie “Grey’s Anatomy” (2005), il primario del Seattle
Grace Hospital è Richard Webber, interpretato dall’attore afro-americano James Pickens Jr.
Egli recita la parte di un primario di chirurgia, e basta. Non deve essere per forza un uomo
con un passato travagliato date le sue origini, non deve essere stato un profugo o rifugiato.
Noi per cavarci d’impaccio, nella serie Amico Mio (1993), il primario lo facciamo interpretare
a Massimo Dapporto, e passa la paura.
I primari bengalesi non sono credibili? Va bene. I marescialli afghani non ci sono in Italia?
D’accordo. Ma le sirene nere possono esistere? E le fate invece? Le fate possono non avere
connotati caucasici? Ovvio, se fosse stata creata una versione “umanizzata” del Re Leone,
di certo sarebbe andato bene se ci fossero stati degli attori esotici di origini africane che, con
sembianze leonine, narravano la storia di una terra selvaggia e lontana.
E’ doveroso iniziare a normalizzare le storie che vediamo in televisione per iniziare a
normalizzare la visione che si ha dello “straniero”. Forse ha una normale, e anche noiosa
storia proprio come la nostra. Alla fine siamo tutti così. Ordinari e normali. A meno che tu
non sia una sirena, in quel caso dovresti essere inevitabilmente bianca.

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