Di Alessandra Di Stefano. Ari Aster dopo il grande successo di Hereditary (2018) trova un nuovo modo di turbare i suoi
spettatori, e nel 2019 esce nelle sale Midsommar, il villaggio dei dannati. Thriller psicologico
che entra a gamba tesa nella sensibilità delle persone.
Il film inizia con un dramma, che dà seguito ad una serie di eventi con una componente
disturbante molto forte. La disgrazia in questione riguarda Dani (Florence Pugh), una
ragazza emotivamente instabile, la quale si ritrova sola dopo la morte tragica della sua intera
famiglia, data per mano della sorella suicida-omicida. Il fulcro del film si vede già dalle prime
scene. Dani in teoria non è sola, ha al suo fianco Christian (Jack Reynor), il suo fidanzato,
ma all’atto pratico, la sua presenza non si mostra in grado di consolare il dolore della
protagonista. Il ragazzo infatti è distaccato e disinnamorato e si pone nei confronti
dell’emozioni di Dani con sufficienza e freddezza.
La svolta nel film avviene quando i due ragazzi, insieme ai colleghi dell’università di lui,
compiono un viaggio studio in Svezia. Lo scopo era quello di approfondire una ricerca su un
evento folkloristico che prende luogo in piena estate in un villaggio sperduto; l’obiettivo degli
abitanti del posto, invece, e dell’evento in sé per sé, si sarebbe presto mostrato tutt’altro.
Fin dall’arrivo, si notano delle pratiche rituali molto estreme. In quel luogo, in realtà, si stanno
celebrando le varie fasi di vità, dalla nascita, alla riproduzione, per finire, alla morte. Una
caratteristica di questo culto è quella di condividere in gruppo questi momenti, creando un
legame stretto con chi compie il passaggio da una fase all’altra. Nel corso del film si
vedranno sacrifici umani e rapporti sessuali compiuti pubblicamente, per questo sconsiglio
vivamente la visione ad un pubblico sensibile su questi temi. Gli occhi esterni alla comunità,
come quelli dei ragazzi o degli spettatori, vedono tutto ciò con disgusto e orrore. Basti
pensare alla scena in cui l’anziano del villaggio si butta da una rupe senza trovare
immediata morte, e la comunità sostiene il suo dolore urlando con lui; o il rapporto adultero
che viene consumato tra Christian ed una ragazza del villaggio, sotto gli occhi di tutte le
donne che insieme a lei condividono l’amplesso.
Benché questa realtà, all’inizio si mostri estremamente distante da quella di Dani, lei si
troverà in breve tempo accolta dalla comunità. La cosa inaspettata è che la ragazza accetta
di essere inglobata in quella vita, provando per la prima volta un senso di appartenenza a
qualcosa e trovando finalmente il sostegno di cui aveva bisogno.
Il film gira intorno al concetto di empatia, non nel senso latino del termine. Per le lingue
come l’italiano e il francese, le parole compassione e pietà hanno un’accezione negativa,
intendendo una sensazione di distacco tra chi prova dolore e chi consola. Quasi un senso di
superiorità, dalla quale una persona deve scendere per dare sostegno ad un altro. Per
lingue come il ceco, il tedesco e per l’appunto, lo svedese, il termine compassione ha una
radice diversa (sentimento e non sofferenza come nel caso precedente), e non è
strettamente legata alle emozioni negative. In questi luoghi, provare compassione, non
significa essere al fianco di una persona che soffre, significa provare con lui le sue stesse
emozioni e condividerle per fare in modo che siano meno forti ed ingestibili.
In quel villaggio nessuno era emarginato e abbandonato a sé stesso, e benché il prezzo da
pagare fosse alto, Dani aveva bisogno proprio di non sentirsi più sola e ha deciso di
accettare le regole del gioco

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