Di Chiara Giacomini
Banalmente pensiamo che sia facile parlare “da donne alle donne”, ma molto spesso non è così. Non possiamo parlare di raptus, di passione, di gelosia quando parliamo di un femminicidio, non è così che si fa. Si deve parlare di odio, violenza, morte e paura. Non possiamo permetterci di sminuire la morte di una donna e non possiamo di certo empatizzare con l’uomo assassino; perché a noi non interessa quanto sia alto, di che colore abbia i capelli o del suo lavoro da imprenditore, non sono cose che aiuteranno a far alzare il volume della cassa di risonanza dell’ennesimo femminicidio. Parliamo, piuttosto, del fatto che avesse già malmenato sua moglie che, ricordiamolo bene, ha un nome e un cognome e che, quindi, ha il diritto di vederlo scritto questo sacrosanto cognome sulla prima pagina. Si è giusto accennata un’ulteriore piaga della narrazione di un femminicidio: la descrizione della vittima e del suo carnefice. La donna è per tutti solo Deborah, mentre l’uomo che l’ha uccisa sarà ricordato come “Lorenzo Cattoni, 39 anni, importante imprenditore conosciuto e ricordato per ..…” È ora di cambiare questo modo di narrare, è ora di dare un nome, ma soprattutto un cognome a queste donne vittime di violenza. Non parleremo più soltanto di Deborah, ma di Deborah Saltori, di Elena Casanova, di Sharon Barni, di Roberta Siragusa e di altre migliaia e migliaia di donne che vorrei poter menzionare tutte. Non dobbiamo soltanto ricordare il nome, il cognome, il volto o l’impiego di questi assassini ma dobbiamo far in modo di non dimenticare le donne a cui hanno tolto la vita e la loro voglia di esistere, donne che si sono viste tarpate le proprie ali e che, sicuramente, avrebbero voluto essere qualcosa di più di un semplice nome su un giornale.