Di Virginia D’Itri. Nel linguaggio di tutti i giorni ci viene spontaneo associare la desertificazione ad un’immensa distesa di granelli di sabbia che conquista terreno, lontana dalla nostra routine e soprattutto inoffensiva. In realtà c’è una profonda discrepanza tra un pensiero a cui si è abituati e ciò che sta accadendo davvero al nostro suolo!
In termini più appropriati la desertificazione è il progressivo inaridimento delle terre, attribuibile a varie cause, quali le variazioni climatiche e le attività umane. Non parliamo di una minaccia attuale, al contrario ha origini radicate, con la sola differenza che negli ultimi anni il deserto avanza più del previsto. Tra i rischi ambientali, trovo che questo sia il più misterioso perché è lento, non fa rumore, ma ci sta accerchiando e se ne parla poco. Sebbene si tratti di un pericolo, non ne sembriamo pienamente consapevoli. Basti pensare che stiamo silenziando un problema già presente nel 75% del suolo globale, un dato fin troppo alto che è destinato ad aumentare a dismisura nei prossimi cinquant’anni. Vari territori hanno assistito a un vistoso calo della produttività, tra questi è inevitabile considerare quelle zone vulnerabili che oltre a dover gestire la povertà, i conflitti ed altre situazioni svantaggiose, devono fare i conti con questa sfida. La chiamo così perché le sue conseguenze sono preoccupanti: il suolo perde la fertilità e gli abitanti, la sua conformazione varia e da vita ai fenomeni erosivi che comportano la perdita di molti territori. Compresi i nostri che non sono affatto fuori pericolo.
Alcuni ne parlano come una catastrofe irreversibile, ad oggi però chiunque può fare una breve ricerca nel web ed accorgersi che i rimedi per rallentarla sono innumerevoli.
Dalla riforestazione ad un maggiore controllo delle risorse, la via più giusta è forse quella di attuare un cambio di mentalità. Lo stesso che si è attivato nei pensieri di svariati artisti che hanno urlato a gran voce la loro preoccupazione per la Terra.
L’installazione più recente porta la firma di un celebre fotografo statunitense, Spencer Tunick, colui che ha radunato duecento volontari nel deserto israeliano per denunciare la lenta scomparsa del Mar Morto. Gli interessati sono stati dipinti di bianco, come gli unici elementi che rimarranno di queste acque affascinanti: i sali. La conclusione è che di questo passo le possibilità di vedere da vicino il lago più salato del mondo si riducono drasticamente, la sua superficie viene passo dopo passo inghiottita dal deserto e ha una data di scadenza, scritta per di più dalla nostra indifferenza.
Una sola opera di una serie infinita che ha il compito di stimolare l’azione collettiva. Non si tratta di uno scherzo, né di una situazione archiviabile! Al contrario va affrontata, facendo luce in primo luogo sulla sua gravità.
Le autorità ambientali hanno il dovere di intervenire seriamente, parlarne è ciò che spetta a noi per tenere questo problema sempre vivo, sotto i riflettori.