Di Giulia Cipriano.

È difficile venire a contatto con le proprie emozioni, quelle più nascoste, che tu vorresti non uscissero mai. Almeno, lo è sempre stato per me. Quando il professore mi ha detto che dovessi essere io a condurre il dibattito del lunedì, potete immaginare la mia reazione. Avevo timore di usare le parole sbagliate, che queste fossero banali. Mi muoveva il profondo desiderio di esprimermi nel migliore dei modi, di rendere giustizia ad un argomento talmente delicato. Così, quando ho iniziato a scrivere, mi sono sentita sopraffatta. Bloccata. Come se avessi eretto un enorme muro davanti a me. Probabilmente mi serviva una spinta, e il professore in questo mi ha aiutata. Mi sono seduta, ho preso in mano la penna, e le parole sono uscite, come se fossero lì pronte, proprio per quel momento.

Non accade spesso, ma mi sentivo realmente soddisfatta di quello che avevo scritto, di come lo avevo scritto. Adesso veniva la parte più complicata: leggere le mie parole davanti a tutti, davanti a persone che non conosco e che non conoscono me. Le mie insicurezze sono risalite in superficie: cosa penseranno di me? Riuscirò a farmi comprendere davvero? Paura di essere percepita come un cristallo da maneggiare con cura. Ancora una volta, la mia mente andava a cento all’ora, molto più veloce di come andassero le cose nella realtà. Questa volta, però, ero preparata. Non potevo, e non volevo, farmi seppellire dalle mie ansie.

È arrivato quindi il momento, tanto temuto e tanto atteso. Pronta per mettere piede nella gabbia dei leoni. Mentre leggevo, la voce tremolante, era come se mi spogliassi dell’armatura che era diventata una sorta di seconda pelle. Ho alzato lo sguardo dal foglio per rivolgerlo verso le persone sedute davanti a me. Tantissimi occhi che mi fissavano. Il professore che dà il via alle domande. Silenzio tombale. Nessuno proferisce parola. Probabilmente non volevano porre delle domande scomode, troppo personali. Lo capisco. È un argomento talmente delicato. Ma vissuto da molti e molte. Che doveva, pertanto, essere discusso.

Le domande iniziano ad arrivare. Sono tante, molte delle pugnalate. Ma ho bisogno che anche le mie risposte arrivino. Cerco di scegliere le parole giuste, di esprimere a voce quei pensieri che, molto spesso, offuscano la mia mente. Passano i minuti, che portano via con sé anche l’ultima ora di lezione, e io mi sento come se mi trovassi in un’altra dimensione. Come se non mi rendessi conto di quello che era appena successo. Ma c’era dell’altro. Leggerezza. Un peso che aveva abbandonato il mio stomaco. E non badavo più a quello che avrebbero potuto pensare gli altri. Di essermi esposta così tanto. Ero contenta di averlo fatto. Fiera.

Ancora una volta, ho la necessità di ringraziare il professore, per avermi concesso questo spazio e per essermi stato vicino in aula. Per aver indirizzato il discorso verso quello che era il quadro generale. La visione più ampia di tutta la faccenda. Verso quella bambina che doveva capire che era arrivato il momento di smettere di colpevolizzarsi.

Ringrazio inoltre tutti i ragazzi e le ragazze che mi hanno ascoltata, non era affatto scontato. Per le parole che mi hanno rivolto dopo il dibattito. Parole meravigliose che per molto tempo pensavo di non meritare. Hanno accolto il mio vissuto. Il mio vissuto per com’è. Per quanto sia un pesante macigno. Ma è anche il motivo per cui io sono quella che sono oggi. Io sono così.