Di Federica Nardi. “Il secondo sesso ora grida #Basta “(Simone de Beauvoir). Sgomento, indignazione, rabbia: prima per non essere credute, poi per essere ignorate e messe a tacere. Qualcuno potrebbe obiettare che si stiano descrivendo sensazioni comuni, normali, banalmente umane. Ebbene, per molte ed innumerevoli donne non è così. Perché quando sgomento, indignazione, rabbia sono costanti anche l’aria comincia a mancare e con essa tutto ciò che riguarda il proprio benessere e la giustizia. Di conseguenza, si inizia a pensare che non ci sia più alcun modo di tornare a respirare e riprendere fiato, seppure per poco, anche solo per un istante. È giunto il momento di dire #Basta.
La revoca della condanna a 23 anni di carcere per l’ormai ex produttore cinematografico Harvey Weinstein, accusato di stupro e molestie da più di cento donne, arriva a quattro anni dalla sua imputazione a causa di un pasticcio giudiziario commesso dalla Corte dello Stato di New York e che rischia ora di annullare tutti gli sforzi e le denunce raccolte dal movimento spontaneo del #MeToo. Infatti, fin dai suoi inizi, questo collettivo di donne è riuscito a sfruttare la realtà dei social per raccogliere migliaia di voci che hanno trovato il coraggio di gridare “è capitato anche a me!”. I carnefici, bersagliati e colpiti con effetto domino, erano politici, imprenditori, attori, registi; tutti accomunati da certa credibilità e autorevolezza che li faceva sentire quasi superiori alla stessa legge. Ora, però, il #MeToo rischia di essere schiacciato con la stessa forza con cui riusciva a diffondersi e ad unire migliaia di storie di violenza e sopraffazione che venivano alla luce solo dopo aver sconfitto l’incredulità e la derisione.
La morale della storia, alla fin fine, è che ad uscirne impunito è ancora una volta un uomo – di potere ed affermato – che si è sentito in diritto di imporsi sulla volontà di diverse donne violando senza scrupoli la loro dignità. Per chi cerca di minimizzare gli episodi di molestie, fisiche o verbali che siano, diventa naturale e del tutto appropriato scadere nella retorica del ‘raptus’, della ‘bravata’ e del celebre ‘se l’è cercata!’: questo, in realtà, è solo un modo sottile ed infimo di giustificare tali azioni e sviare – o in alcuni casi addirittura mistificare – la natura del problema che è prima di tutto culturale e sistemico. E qui il mondo politico trema: pronunciare le parole “patriarcale” e “maschilista” quando si descrive la società contemporanea sembra sempre un azzardo ma, dopotutto, è l’unica verità ammissibile se si vuole davvero mettere in atto un’educazione al cambiamento. Chiamare le cose con il proprio nome è il primo passo necessario da compiere per creare un nuovo linguaggio universale che tenga finalmente conto delle ingiustizie e delle violenze subite da moltissime donne, affinché il pensiero afono non sia più una valida alternativa alla parola.