Di Helena López. La Spagna vive ogni primavera con un mormorio di incenso e passi misurati che trascinano secoli di fede.
Le processioni inondano le piazze, le candele tremolano nelle notti .
Là dove altri vedono tradizione, io percepisco un battito collettivo capace di farti vibrare senza chiedere permesso.
Il fervore rompe la routine e trasforma il dolore in offerta, la solennità in un battito condiviso.
Non è solo passione popolare: è denuncia silenziosa dell’effimero, grido di autenticità contro la cultura dell’istantaneo.
Le saetas squarciano l’aria con voce antica e sfidano l’oblio di ciò che ci unisce.
C’è dolore, c’è bellezza, c’è un luogo in cui la fede si mescola alla memoria e esplode in ogni angolo.
La liturgia di strada espone contraddizioni: devozione avvolta nel turismo, tradizione che flirta con lo spettacolo.
Ma finché l’incenso resisterà e un Cireneo poserà i piedi in ogni quartiere, la scintilla del sacro rimarrà viva.
Nel ruggire dei tamburi e nello scricchiolio delle assi, basta un secondo per sentire che qualcosa perdura.
La Pasqua in Spagna non è un semplice scorrere del calendario, è un impulso ancestrale che custodisce la nostra pelle collettiva.
Non è il momento dei selfie né dei palloncini colorati.
È l’ora di restaurare la profondità, di riaprirsi alle vere emozioni.
La Settimana Santa non muore se conserviamo l’eredità nella carne e nelle ossa.
Svegliamoci e continuiamo a portare con noi l’eco della sua misteriosa fiamma.