Di Luna Luciano. La reconquista della “sovranità perduta” e la filosofia “America First”, promossa dal presidente Donald Trump, fin dal primo giorno del suo insediamento, mostrano oggi quali siano le conseguenze di una politica radicalmente nazionalista, che vede il mondo circostante come un’arena anarchica e soprattutto competitiva. Dalla fine del 2019 ad oggi i riflettori di tutto il mondo sono, infatti, puntati sul colosso Statunitense e su uno dei suoi antagonisti per eccellenza: l’Iran.L’attacco del 3 gennaio di un drone, che ha eliminato il leader militare iraniano Quassem Soleimani e il vice comandante iracheno Abu Mandi al Muhandis, ha rischiato di innescare una possibile escalation bellica tra i due Paesi, aggravando le relazioni con gli alleati europei, “creando un cortocircuito istituzionale con i leader del Congresso non informati e spingendo il governo iracheno a minacciare l’espulsione dei soldati americani”, come scrive il Sole 24 Ore.
La scelta di eliminare Soleimani, in realtà, entra in netto contrasto con la politica del “disimpegno militare” promosso e promesso da Trump alle sue elezioni.
Nei giorni precedenti si sono succeduti ripetuti scontri tra le forze militari statunitensi e le milizie filorianiane, tra cui quelle di Hezbollah. La tensione creatasi è culminata con la presa d’assalto dell’ambasciata americana a Baghdad. Di fatti, come riportato dal giornalista inglese Adam Shatz, un simile attacco avrebbe posto in risalto la debolezza degli Stati Uniti.L’uccisione del generale iraniano, secondo l’International crisis group, resta a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra all’Iran, ma anche un atto di aggressione contro l’Iraq. Soleimani apparteneva alla generazione che ha combattuto per la rivoluzione del 1979, veterano di guerra Iran-Iraq nonché stratega per la creazione della mezzaluna Sciita. Eliminandolo Trump non solo ha alimentato la “retorica del martirio”, ma ha fornito un valido strumento con cui l’ayatollah Ali Khamenei potrebbe riaffermare e consolidare il regime. Infatti da novembre il paese è scosso da movimenti di protesta, soffocato nel sangue. In questo modo l’attenzione degli iraniani verrebbe distolta dai problemi interni concentrandosi su un unico “nemico comune”. Allo stesso modo il discorso si potrebbe fare per Trump. Lo scontro offre un’utile distrazione dal fatto che il presidente sia sotto impeachment, trovandosi in questo momento a gestire forse uno dei momenti più critici del suo mandato: i rapporti con il Medio Oriente.
La questione, tuttavia, risulta essere molto complessa e quindi da analizzare sotto diversi punti di vista.
Uno dei dati evidenti però, come ha osservato Joshua Keating, è che l’amministrazione Trump abbia forzato i limiti dell’autorità presidenziale violando anche il diritto internazionale.