Di Sarà Condrò. Tribunali, Parlamento e migliaia di battaglie portate avanti da associazioni e autorità competenti non sono bastati ad abolire o quantomeno revisionare una norma del tutto deleteria per il calcio dilettantistico italiano. Legati alla squadra in cui giocano fino a venticinque anni compiuti, molti ragazzi sono costretti ad abbandonare lo sport che amano perché “prigionieri” del club di appartenenza. La causa di questa mancata libertà si chiama vincolo sportivo, esistente  solo in Italia ed in Grecia. Ad esclusione del fallimento della società, o della scelta di quest’ultima di “liberare” il giocatore, non c’è modo di opporsi a questa legge assurda. Essendo una norma che entra in vigore a partire dal quattordicesimo anno di età di un ragazzo , spesso sono proprio i genitori che si trovano costretti a “legare” il proprio figlio minorenne ad una società con la firma del cartellino, necessaria per poter affrontare il campionato. Questo cartellino che ha valore pluriennale non dà a fine stagione la possibilità di scegliere se proseguire con la stessa maglia o intraprendere un’avventura altrove.
Ciò che dovrebbe lasciarci basiti è che una società che trattiene un ragazzo nonostante egli si opponga appoggiato dai genitori o dal proprio agente, non sta facendo nulla di illegale. La norma del vincolo sportivo infatti consente ad un club di chiedere cifre spesso spropositate  in cambio del cartellino del giocatore. E’ impossibile capacitarsi di dover “comprare il proprio figlio” perché possa trovarsi a vivere la sua passione in un ambiente che gli sia consono. Naturalmente a muovere questo scandalo non può che essere un motore principalmente economico che vede le piccole società guadagnare su un giocatore di valore cresciuto nel vivaio.
La questione è stata portata da Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione italiana Calcio, fino in Parlamento in cerca di una soluzione che ci auguriamo arrivi presto e che consenta a tutti di portare avanti i propri interessi senza danneggiare nessuno.

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