Di Giulia Capobianco.

“Sei troppo basso”. “Perché sei così magro?”. “Tu sei diverso, perché ami un uomo”. “Tu non sei come me, mia madre dice che non possiamo stare insieme”. “Tu non puoi vivere qui”. Parole. Parole dure, scagliate contro come fossero un’arma letale. È ordinario, quotidiano. Un ordinario razzismo non solo verso chi ha un colore della pelle più scuro. È ordinaria, quotidiana, intolleranza verso chiunque si desidera gettare sullo scalino più basso della società.
Discriminazione. Un termine di impatto, nato con l’umanità e che continua a vivere insistentemente con essa. Viva, forte, arbitraria e assurda, in una società che si definisce orgogliosamente evoluta, ma che in realtà è di gran lunga ereditaria delle restrizioni di un passato sempre presente. Il razzismo genera odio”. Non è esattamente così. È un prematuro sentimento di odio a trasformarsi in intolleranza verso gli altri. Un desiderio bramoso, quasi incontenibile, di dover necessariamente rinchiudere una persona all’interno di una scatola da buttare. Una scatola con “l’etichetta”, posta in basso, in modo da riconoscere il contenuto e poterlo separare dal resto. Il razzismo è odio, il razzismo è intolleranza, il razzismo è paura irrefrenabile di relazionarsi. Relazionarsi con chi ha una malattia rara e che presto non ci sarà più. Costringerlo a sentirsi “diverso” dagli altri. Relazionarsi con chi ha voglia di vivere l’amore con una persona dello stesso sesso, paura di relazionarsi con il “ragazzo scuro”. È ordinario razzismo, quotidiana intolleranza di chi non capisce che una malattia rara, il colore della pelle, un amore irrefrenabile, l’altezza o la corporatura, non sono “diversità”.

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