Di Fabiana Donato. Niente libri e niente imposizioni, soltanto: mettiti in gioco. Nella mia esperienza da fuori sede in una città meravigliosa come Roma, questa è stata la sfida che ho affrontato fin dall’inizio nel laboratorio di redazione giornalistica.

Dal primo giorno è stato un continuo alternarsi di emozioni, scontri e conoscenze. Imparare insieme e dagli altri è stato senza dubbio quello che nessun altro corso mi ha mai fatto sperimentare. All’epilogo del mio capitolo universitario non credevo che mi sarei ancora messa in gioco, specialmente tornando a scrivere articoli, la cosa che più vorrei fare da grande. Partecipando a nuove attività sono entrata  maggiormente in contatto con i miei colleghi, ma soprattutto con persone diverse da me e con le loro uniche esperienze, fatte di: discriminazioni, delusioni, lotte, religiosità e tanto altro. Ho capito che qualsiasi percorso si decida di affrontare per prima cosa occorre mettere il cuore. Nelle sfide della vita mai si è preparati fino in fondo, ad ogni passo, anche quando si cade, si può imparare e diventare più forti, perché nessuno regala niente e momenti così emozionanti non tornano indietro, per questo non li dimenticherò mai.

Ho iniziato a frequentare il laboratorio all’inizio del mio secondo anno del corso magistrale di storia, già ben conoscevo la facoltà e avevo affrontato prove importanti, ma quello che è arrivato da questo secondo anno non mi era mai successo. Ho dovuto riprendere la mia vita in mano, perché dietro tutta quella meraviglia c’era qualcosa che non andava, e soltanto sbattendoci la testa ho capito cos’era. La mia routine si stava rompendo e lontana da casa avrei dovuto da sola rimboccarmi le maniche e ricominciare di nuovo. Non sono mai stata del tutto sola, oltre la mia famiglia e i miei amici che da lontano mi sostenevano, il laboratorio è stato un punto di riferimento costante. Continuare a scrivere mi ha fatto rimanere concentrata sui miei obiettivi, perché tutto passa anche quando sembra impossibile. Ancora un’altra sfida che ha condito di spavento e incredulità questo secondo anno, non solo per me, ma per tutto il mondo, è stata la pandemia di coronavirus. Un evento che mai nessuno si sarebbe immaginato; proprio quando avevo ripreso la mia vita in mano e stavo ricominciando alla grande, ho dovuto affrontare l’inaspettato. Provvedendo ad avere tutto quello che mi mancava, ho passato i mesi del lockdown nazionale, compreso il mio compleanno, in compagnia del mio telefono. Mezzo con il quale entravo in contatto con chi più mi mancava in quei mesi scanditi da un’uscita settimanale, unicamente per la spesa, e lezioni online che mi tenevano incollata al computer tutto il giorno. Ancora però il laboratorio è stato presente, con le rassegne pomeridiane, anch’io ne ho realizzata una, e gli affettuosi auguri dei miei compagni di laboratorio. Dopo gli esami, sono tornata a casa felice di abbracciare la mia famiglia, ma con l’incertezza nel cuore. L’incertezza di rivedere la mia università con le persone care che hanno reso meravigliosi questi due anni a Roma. Adesso la mia vita è diversa, perché sono subentrati ulteriori cambiamenti che l’hanno arricchita sia di esperienze positive che di altre delusioni e tristezze, ma vado avanti e proseguo dritta nella strada dei miei sogni. Ogni tanto mi volto e affaccio sui ricordi di questi due anni, e mi commuovo e rattristo allo stesso tempo, perché questi anni a Tor vergata sono stati i più belli, e mi si stringe il cuore a pensare che non torneranno più. Ma non posso farci nulla, anche questo capitolo della mia vita si sta concludendo, e dopo questa esperienza sarò pronta a sfogliare le pagine successive di questo inspiegabile progetto che ognuno di noi ha il dono di affrontare, la vita. Sognerò sempre di tornare nella mia bella Roma, non è un addio, ma un arrivederci.

I luoghi li fanno le persone, e con l’esperienza del laboratorio, ho capito che la vita ci mette sempre alla prova con sfide che sembrano insormontabili, ma che dobbiamo affrontare con i tempi della nostra anima per alleggerirci il cuore, ma soprattutto per urlargli che: è vietato dire non ce la faccio.

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