Di Cristina Pantaloni- “Ero terrorizzata, la mia migliore amica era morta davanti ai miei occhi per quel motivo”; pregava di essere risparmiata, Rhobi Samwelly, una delle tante donne protagoniste della realtà che si cela dietro le mutilazioni genitali femminili, detta infibulazione. Rhobi è oggi un’attivista impegnata nel cercare di porre fine a questa drammatica tradizione che conta, solo nel 2020,  4 milioni di bambine a rischio. Questa pratica, se oggi ben conosciuta e considerata illegale in alcune nazioni, in ben 30 paesi dell’Africa e del Medio Oriente persiste in forme ancora molto forti. In questi  paesi, a mantenere le mutilazioni ancora in vita, è la convinzione che migliorino la fertilità e l’igiene personale femminile; convinzione che rientra, purtroppo, in una cultura ancora chiusa, in un patriarcato non ancora superato. Uno degli aspetti più importanti è che le bambine e le ragazze sono perfettamente consapevoli che si dovranno sottoporre a questa pratica, ma non vengono riferite loro le conseguenze e i dettagli dell’atto; viene cosi privato loro il diritto di scegliere se sottoporsi o meno ad un rischio per la loro salute. “Tutto ciò che ho fatto è sbagliato, ogni notte prego per essere perdonata”, sono le parole di Hido, una donna somala che per anni ha praticato la mutilazione su oltre 50 bambine. Sono le stesse donne, infatti, a farsi carico di queste operazioni, agli uomini non è concesso nemmeno partecipare. Oggi Hido, come Rhobi, diventa portavoce di quella che definisce una completa violazione dei diritti  della donna. La mutilazione è violazione dei diritti più importanti, quelli alla salute, alla sicurezza e all’integrità fisica. La salvaguardia e l’educazione, costituiscono delle parti necessarie in questo contesto, solo in questo modo tante bambine prenderanno la piena consapevolezza di questa pratica, e soprattutto delle sue conseguenze, per scegliere la strada più giusta per il proprio destino.

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