Di Giulia Capobianco. È una forma di bullismo verbale, che raccoglie le parole che come proiettili arrivano dritte al cuore dell’autostima, calpestandola, annientandola. “Credo di odiarmi. Credo di odiare ogni centimetro esatto del mio corpo. Odio quando al mattino devo guardarmi allo specchio. Sto lì, a fissare quegli angoli estremamente rotondi del mio addome, quelle curve che tutti guardano con disprezzo. Vorrei essere bella, vorrei essere apprezzata, ma il mio sogno è irraggiungibile…vorrei farla finita”. Buio. Un buio che tocca le pareti della mente e si aggrappa per non andare più via. Passa attraverso i ricordi, momenti già vissuti e quelli che ancora dovranno esistere. È un buio che porta ad un imponente desiderio di farla finita, distruggendo piccoli pezzi di sogno.

“BodyShaming” è un termine che sembra essere entrato nel nostro vocabolario quotidiano, ma che non tutti ne hanno compreso le molteplici sfaccettature. BodyShaming significa deridere, discriminare il corpo altrui, etichettandolo perennemente come “troppo grasso”, “troppo magro”, “troppo brutto”, “troppo troppo”. Impedisce al nostro corpo di vivere, di raccontarsi con quegli abiti che amiamo indossare perché ci fanno stare bene, ci fanno brillare gli occhi. Gli occhi brillano fino a quando lo sguardo degli altri inietta, con crudele potenza, il buio più totale. Inibisce, invita a vergognarsi. Lasciate che vi dica però che il giudizio, l’etichetta di chi ci circonda, nei nostri confronti, nasce da un qualcosa di più grande. Un qualcosa che viene fatto passare erroneamente come giusto, valori e canoni “indiscutibili”.

La vergogna inizia ad incatenare le caviglie, le tiene ferme, immobili, diversamente dai nostri pensieri che non fanno altro che correre, velocemente. “Vorrei poter indossare i pantaloni a vita alta senza essere derisa o scattarmi una foto senza dover ricorrere ad una magica applicazione che cancella per sempre i miei difetti”. È una corsa continua, una corsa inutile verso un qualcosa che essenzialmente non esiste. Abbracciamo il giudizio fino ad incarnarlo, fino a renderlo parte di noi, parte della nostra essenza. Quando ci guardiamo allo specchio, vediamo quello gli altri vogliono farci vedere. Un’immagine non sana, un’immagine che aspira ad una perfezione letteralmente inesistente. L’immagine imperfetta di “come tu mi vuoi”.

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