Di Giulia Cipriano. Rabbia. Frustrazione. Paura. Dolore. Queste le emozioni che suscita la tragedia che vede protagonista la giovane pallavolista afgana. “È stata decapitata”, così riporta la notizia l’Independent Persian.
La sua colpa? Giocare senza hijab. La sua colpa più grande? Essere donna.
La ragazza faceva parte della nazionale giovanile di pallavolo dell’Afghanistan. Aveva soli 18 anni. Si chiamava . Un nome che non deve essere dimenticato. “Adesso toccherà a me”, queste le preoccupazioni delle compagne, come fossero “trasgressori da punire”.
Terrore. Le giocatrici cercano così di cancellare ogni loro traccia, bruciando divise e scarpe, tutto del loro passato da sportive. Per i talebani, è inappropriato che una donna pratichi sport, perché “potrebbe trovarsi in situazioni in cui il volto o il corpo non sia coperto”. “Non è necessario per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico”, parole di Ahmadullah Wasiq, vicepresidente della “Commissione culturale”.
Costrizione. Controllo. È possibile che ancora nel 2021 una donna non possa avere il controllo sulla propria vita? Che questa possa esserle strappata così brutalmente? Il corpo della donna non le appartiene mai. Un corpo considerato dall’alba dei tempi un mero strumento di piacere sessuale. Di procreazione. Da usare e gettare via all’occorrenza. E quando una donna prende consapevolezza e si appropria del suo stesso corpo, diventa una poco di buono.
Viviamo in una realtà in cui alle donne viene detto come vestirsi, come comportarsi, cosa fare e cosa non fare. Fidanzati che decidono cosa sia più giusto per le loro ragazze. Padri che abusano dell’amore e dell’innocenza delle figlie. Quanto ancora affinché una donna si possa sentire libera di essere, di essere donna, di essere chi e cosa desidera? Le donne desiderano e pretendono un mondo di parità ed eguaglianza. Un mondo sicuramente diverso da questo.