Di Luca Iglio. Un vero e proprio spettacolo dell’orrore. Era la sera del 22 luglio 1991 quando due agenti di polizia fecero irruzione nella casa di Jeffrey Dahmer, All’interno dell’abitazione trovarono numerosi resti di persone conservati in frigorifero e in alcuni barili. Il cannibale di Milwaukee, così chiamato dai media locali alla luce delle scoperte, si rese protagonista di ben 17 omicidi nell’arco di tredici anni (dal 1978 al 1991). Il suo modus operandi era molto semplice quanto macabro: le vittime venivano attirate nell’appartamento  con le scuse più svariate, appartamento dal quale non sarebbero mai più uscite, se non una di loro; queste, poco più che adolescenti e dichiaratamente omosessuali, venivano prima strangolate ed uccise, per poi essere sottoposte alla pratica della necrofilia ed essere fatte per essere mangiate. Ma ciò che fece più scalpore fu il modo di atteggiarsi del killer durante il processo: mai un senso di colpa, mai un gesto di narcisismo tipico dei serial killer. Solo totale indifferenza di fronte alle testimonianze dei parenti delle vittime e della successiva sentenza del giudice. Eppure era ben consapevole di quello che stava succedendo, come dimostra la sua lettera scritta al giudice, in cui si dichiarava colpevole, spiegando che finalmente, una volta in prigione, non avrebbe più potuto fare del male a nessuno. Jeffrey Dahmer verrà ucciso in carcere dopo due anni dalla condanna. Un caso che è tornato in voga con la messa in onda della serie tv a lui dedicata da parte di Netflix, che ha suscitato non poche polemiche. Serie tv che ha fatto “agire” anche la comunità del web, con numerosi commenti che riportavano la stessa frase “Per la notte di Halloween non vestitevi da Jeffrey Dahmer”. Insomma il messaggio è molto chiaro: non rendiamo immortale un serial killer realmente esistito.