Di Laura Zogorean. Vi siete mai chiesti cosa significhi soffrire in silenzio e nascondere tutto il dolore dietro a dei sorrisi fittizi o a degli occhi spenti? Per molti giovani questa è la realtà di tutti i giorni, una realtà che li schiaccia fino a cercare una via di fuga, necessaria per affrontare il domani e spesso, questa valvola di sfogo, si manifesta nell’autolesionismo.

Il fenomeno ha radici profonde a cui ragazze e ragazzi ricorrono per gestire emozioni intense come rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza; quando il senso di inadeguatezza pesa come un macigno, quando ci si paragona alle vite apparentemente perfette esposte come trofei sui social, quando il pregiudizio supera il dialogo o anche più semplicemente per rendere concreta l’agonia con cui si convive, o per meglio dire, con cui si cerca di sopravvivere.

La sofferenza non sempre si riesce ad esternare, perché ciò comporterebbe ammettere agli altri e in primis a sé stessi di avere un problema, ma in una società che ci vuole perfetti secondo dei canoni impossibili da imitare, è una sfida riuscirci. Questa belva spaventosa si manifesta in forme diverse; attraverso tagli su gambe o braccia, bruciature con oggetti roventi, graffi e pizzichi. Ciò che accomuna questi atti violenti è la poca visibilità che hanno se guardati dall’esterno, i ragazzi li nascondono come segreti che condividono solo con loro stessi, ed è proprio qui che bisogna intervenire.

Basterebbe in alcuni casi osservare più attentamente e più da vicino le vite altrui, ascoltare quelle grida silenziose che necessitano sensibilità e comprensione instaurando un dialogo sano privo di giudizi; promuovendo attività alternative in cui essere liberi di esprimersi è la prerogativa, come la scrittura o l’arte.

L’empatia è fondamentale se si vuole regalare una vita degna di essere vissuta, perché oggi è un taglio, ma domani?