Di Eleonora Gentile

Una raffica di domande: scomode all’inizio, irriverenti poi. In nome di un’indagine; sotto l’ala, non sempre protettrice, di quella giustizia che di femminile ha solo il sostantivo. Perchè era uscita,dove andava? cosa indossava? perchè era ubriaca? lei ha relazioni con tutti quelli che le piacciono?ci stava?le piaceva? ma ha urlato? è sicura di non aver fatto intendere qualcosa..? Un “lei” solo formale…che quasi sempre diventa un “tu” comodo, sbrigativo e di parte.
Sono,solo alcune, delle numerose domande che vengono rivolte alle vittime di violenza da parte degli inquirenti; come se tutto questo possa in qualche modo attenuare la colpa ,la gravità dell’atto,come se questo attribuisse il diritto a qualcuno di prevaricare,fino anche ad uccidere, una persona.

Aveva stuprato la figlia della compagna,ma per i giudici il fatto era meno grave perché la ragazza non era vergine.
Per il giudice «il fatto non sussiste» perché la donna si è limita a dire «no» senza gridare.
Segue una ragazza all’uscita dal pub dove lavora, le stringe un laccio al collo e cerca di violentarla, viene scarcerato dopo appena due giorni.
Quei jeans senza l’aiuto della vittima non potevano essere tolti: tutte a braghe larghe allora perché averli attillati provoca ormoni irrefrenabili a quanto pare. Pulsioni da orco, da bestia: da chi il sesso lo vive non con la testa, men che mai con il cuore, ma solo con un elemento in mezzo alle gambe pronto ad esplodere peggio di una bomba ad orologeria

“Dopo il torto anche la beffa”,infatti queste sono alcune delle sentenze che hanno dovuto ascoltare e accettare donne vittime di abusi.
Decisioni vergognose che non hanno nulla a che fare con la legge e la ragione, che lasciano impunito chi si macchia di stupri. Sentenze di magistrati fondate su stereotipi e pregiudizi pieni di sessismo.
Chissà con quanta paura e angoscia di chi ha subito  ci si reca poi dalle autorità , ma allo stesso tempo con quanta speranza di trovare almeno nello Stato una protezione,un punto di appoggio. Denunciare richiede un enorme coraggio,anche perché la vittima si sente la vera colpevole dell’accaduto, come se quello che le è capitato fosse meritato.
Denunciare significa raccontare e rivivere i fatti accaduti e trovarsi di fronte persone che, con un’aria spesso disinvolta insinuano anche che non sia reale con occhi che dicono che ciò che viene raccontato è una falsità ,se si è certi dell’accaduto; come se la certezza fosse certificata.
Molte vittime erano andate dalle forze dell’ordine prima di essere violentate,uccise o acidificate, molte avevano segnalato e denunciato l’ex marito o il compagno che le intimidiva,perseguitava.
Ma lo Stato dove era quando poteva prevenire, proteggere e garantire il diritto alla vita di quelle donne che avevano chiesto aiuto? Ecco perchè la verità è che dovremmo essere noi a domandare qualcosa a questi inquirenti, perchè la vera domanda è il perchè si indaghi nella vita della vittima, se di fatto, quello posto sotto giudizio è il suo assassinio. Fin a che per essere creduta, ad una vittima non basteranno i referti medici, psichiatrici, le mille testimonianze, le prove del dna, ma continuerà a pesare solo il numero di persone con cui è stata prima che succedesse, che tipo di biancheria aveva, l’abbigliamento che portava quel giorno,se solitamente beve o si droga; fino ad allora, fino a che, chi dovrebbe pagare non paga;non diteci che la giustizia è uguale per tutti. E’  femminile…..nome comune di cosa genere femminile, plurale giustizie.