Di Francesca Sofia Rizzo. Parlare di mutilazioni contro le donne fa paura, genera disgusto, indignazione, rabbia, tanto che nonostante sia un fenomeno ormai noto ai più, si stenta a parlarne.

E’ una pratica le cui origini, difficili da ricostruire, sono ben radicate nella cultura di svariati popoli dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia, dove il fenomeno è più presente. Tuttavia, l’argomento culturale non può essere utilizzato per giustificare la violenza contro esseri umani e la violazione del diritto alla vita, alla salute e all’inviolabilità corporea. Per fermare questo fenomeno atroce c’è bisogno di un approccio che tenga in conto la prospettiva interna di certe comunità, ma il relativismo morale non trova spazio in questo dibattito.

Le mutilazioni genitali femminili, nelle loro varianti più o meno invasive, in condizioni di scarsissima igiene o praticate da professionisti in ambienti medici, hanno tutte le stesse devastanti conseguenze, senza portare nessun beneficio: a livello fisico, problemi a breve termine come emorragie, dolore acuto, infezioni, che talvolta portano le donne a non sopravvivere; se anche sopravvivono, dovranno convivere per sempre con l’impossibilità ad avere una vita sessuale normale, difficoltà e complicazioni durante il parto, formazione di cisti, ascessi e così via. Altrettanto severe sono le conseguenze psicologiche, causate dal trauma inflitto nella maggior parte dei casi a bambine tra la prima infanzia e i 15 anni d’età (dati dell’Unicef).
Le testimonianze delle donne parlano chiaro: Zainab, una ragazza infibulata all’età di 8 anni, ricorda così l’evento traumatico vissuto assieme alla sorella

Il giorno prima della nostra operazione, un’altra ragazza era stata infibulata ed era morta a causa della procedura. Noi eravamo molto spaventate e non volevamo andare incontro allo stesso destino. Ma i nostri genitori ci hanno detto che fosse un obbligo, così siamo andate. Facemmo resistenza: pensavamo davvero che saremmo morte per il dolore. C’è una donna che ti chiude la bocca per non farti urlare, due che ti tengono per il busto e altre due che tengono le gambe. […] Noi col tempo ci siamo riprese e non siamo morte come l’altra ragazza. Ma il ricordo e il dolore non vanno mai davvero via.

(fonte: OMS)

Le motivazioni sono le più svariate e interconnesse tra loro: socio-economiche, quando l’infibulazione è un prerequisito per il matrimonio, passaggio fondamentale per le donne che vivono in società in cui sono costrette a dipendere da un uomo; estetico-igieniche, poiché l’apparato genitale esterno femminile in alcune realtà è considerato ”sporco” e brutto; religiose; socioculturali, quando le mutilazioni sono viste come passaggio nell’età adulta; psicosessuali, se consideriamo le mutilazioni come metodo di ”controllo” della sessualità femminile, connotata, secondo alcune culture, da un’innata ”insaziabilità” che comprometterebbe il suo ruolo di moglie e madre.

Per quanto ciò appaia aberrante e lontano dalla nostra sensibilità, non bisogna dimenticare che pratiche del genere venivano attuate anche in Occidente fino alla metà del ‘900. Nel 19esimo e 20esimo secolo, la rimozione del clitoride veniva praticata come ”cura” a quelle che erano percepite come malattie, in quanto deviazioni dallo ruolo tradizionale: isteria, ninfomania, lesbismo, etc.

In definitiva, si trattava e si tratta ancora del non rispetto dell’autodeterminazione della donna, sul cui corpo va avanti da millenni una guerra, e su cui solo negli ultimi decenni, grazie alle battaglie femministe, le donne hanno potuto iniziare a dire la loro.