Di Benedetta Berluti. “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (articolo 3).

Lo sa bene anche Alì, soprannominato dai suoi compagni “Alì il pazzo”.

Alì, ha 31 anni, è un tunisino scappato da una vita piena di violenza, di guerra, e come tantissime altre persone disperate è arrivato a Lipa, campo di concentramento profughi, in Bosnia, a solo 4 ore di auto dall’Italia.

Alì vuole andare in Germania, così finalmente potrà ricongiungersi con suo figlio, potrà riabbracciare la sua famiglia.

Alì durante l’ennesima corsa contro il tempo, nel speranza di attraversare per la settima volta il sentiero che lo condurrà ad una nuova vita, ad una rinascita, incontrerà delle guardie croate che senza chiedergli niente inizieranno ad insultarlo ed a colpirlo con i manganelli.

Alì riprenderà i sensi e vedrà il suo sangue brillare sulla neve, su quella neve che arriva fino alle caviglie.

Non soddisfatto il capo pattuglia deciderà di togliergli le scarpe, giocandosi un caffè, con i suoi compagni, che quel disgraziato non ce la farà e si unirà ai tanti cadaveri dispersi nel bosco.

Alì riuscirà a tornare al campo, nonostante durante il percorso le sue falange si sono staccate dai sui piedi, ma non sarà più lo stesso, inizierà a farfugliare, a dire frasi sconnesse, e da quel momento Alì sarà chiamato il pazzo e non più il saggio, come una volta.

Alì, dopo un’amputazione alle gambe morirà su quei teli di plastica, stesi per terra, in quel campo senza bagni e né letti, di fronte all’Italia, da solo.

A causa di quell’incontro fatale, di quel gioco malsano che è la vita, di quegli agenti europei, gli stessi cittadini europei come gli italiani, Alì, detto “il pazzo”, non vedrà più la sua famiglia e non avrà il diritto di salutare per l’ultima volta suo figlio.

Esistono 30 articoli della dichiarazione dei diritti umani.

Articoli che però non conoscono o se ne dimenticano le autorità, le persone che chiudono gli occhi e aspettano che il tempo faccia il suo dovere, che ordinano di chiudere i porti, che pensano che il male del Paese siano gli immigrati, gli stranieri, omettendo le diverse accuse di riciclaggio di denaro, fondi neri, false fatturazioni, frode, processi rimandati al giudizio, chi fa collaborazioni con mandanti di omicidio, chi prende soldi da imputati, deliquenti, chi fa lavorare gente in nero, in orari disumani senza sicurezza, chi non investe sui giovani.

Chi si proclama paladino della giustizia ma chiede ad una donna, durante un colloquio di lavoro, se vuole avere figli e la paternità è quasi inesistente; licenzia una professoressa che ha subito revenge porn; colpevolizza chi ha subito violenza perché “vestit* così se l’è cercata”, perché ha assunto comportamenti che hanno fatto fraintendere, perché ha denunciato la violenza dopo 10 giorni dall’accaduto, perché aveva lo smalto alle unghie, perché portava il trucco, perché sei “contro natura”, perchè “non sei né uomo né donna”, perché non sei “normale”.

Un paese che giustifica il colpevole ed incrimina la vittima, che non riconosce le persone come esseri umani ma ha bisogno di etichettare tutto e tutti.

La colpa però non è mai degli italiani, dello Stato, ma sempre e solo degli altri.

La verità è che alla fine è tutto finto perchè noi non ricordiamo mai niente.