Di Luna Accica.

Delle luci abbagliano la vista e una goccia di sudore cola lentamente dalla fronte. Risa di gioia irrompono nel tendone bianco-rosso. Dalle labbra esce un sospiro tremante. Il piccolo acrobata ancora dietro le quinte fissa con occhi sgranati il palco. Vestita con bombetta e divisa, la borghesia ottocentesca parigina non vede l’ora di svagarsi dopo una giornata passata a rincorrere soldi. Il presentatore annuncia l’inizio di un nuovo numero. Il piccolo saltimbanco trasale: sa che è arrivato il suo momento. Ma sarebbe scappato se avesse potuto. Sarebbe fuggito da quegli occhi impazienti e avidi di divertimento, da quel fracasso di risa isteriche, e da quelle tasche piene di soldi ma vuote di sentimenti. Eppure, come se non potesse controllarle, le sue gracili gambe si diressero verso il centro dell’arena, mosse dalla paura di disobbedire ai genitori che tanto amava, quanto temeva. Ma come biasimarli. D’altronde bisognava pur portare un misero pezzo di pane a casa. Allora ecco che il piccolo acrobata si esibisce sul filo invisibile tra la morte e la vita: salti, capriole, spaccate e ruote. Ma basta un millesimo di secondo, il tempo di uno scatto fotografico, una distrazione, per trasformare uno spettacolo in una tragedia e purtroppo, per questa volta, al bambino spettò la seconda scelta. Una storta, un tonfo, un grido di dolore, del sangue sparso per terra. Un lungo silenzio cade dentro il tendone. Piano piano gli spettatori si alzano come se nulla fosse successo. Come se non sapessero che quel bambino era morto anche solo per portare qualche centesimo a casa. Come se fossero inconsci della vita per nulla dignitosa che conduce “quella gente” pur di sopravvivere. D’altronde è solo un gruppo di “ciarlatani”, che non meritano più di qualche soldo, e se lo devono far bastare. Il povero bambino è ora disteso sul pavimento e mentre si contorce per il dolore, ecco arrivare la mamma che lo porta via da quel teatro di indifferenza. Il numero era finito davvero. Dietro le quinte, qualcuno scorge la scena. È Gustave Doré, pittore romantico francese. Non può lasciare che questo passi inosservato. Doré vuole denunciare una realtà che supera la dimensione spazio-temporale in quanto raffigura la metafora di tutte quelle società cieche di fronte alle ingiustizie altrui, creando così un’opera di fronte alla quale non è possibile rimanere indifferenti. Un quadro che rompe la bidimensionalità e allunga il braccio per stringere lo stomaco di chi lo guarda. L’artista dipinge una scena crudele e agghiacciante senza nessuna censura: il cranio del bambino è avvolto da una coperta insanguinata che tuttavia non riesce a trattenere il sangue, e la pelle biancastra segnala la sua prossima morte. In questo modo Dore vuole sbattere la realtà in faccia all’osservatore, ma non solo. Se guardiamo attentamente, il gufo seduto sulla panchina a sinistra, punta gli occhi dritti verso di noi, con postura maestosa, senza vergogna, senza scrupoli, come se volesse accusarci di far parte di quegli spettatori che tanto hanno bramato di veder il bambino esibirsi, e ora, guardano e passano come se nulla fosse successo. È l’unico animale che non osserva la scena e soprattutto che non esprime alcuna emozione. Nel mondo antico, infatti, il gufo rappresentava la saggezza e dunque rimane estraneo allo stupore della famiglia, come se già sapesse cosa sarebbe successo. Infatti, ciò che risulta più agghiacciante della morte del bambino, sono i tarocchi disposti in fondo a sinistra del quadro: l’asso di picche simboleggerebbe la morte. Dunque, il cartomante ha letto il destino del bambino? Ma soprattutto, la madre ha deciso di farlo esibire sfidando la sorte, pur di portare qualche soldo in più a casa? Doré accenna una risposta con queste parole :“ Ho voluto descrivere il risveglio tardivo della natura in questi due esseri induriti quasi brutalizzati. È per ottenere soldi che hanno ucciso il loro bambino, e con la sua morte hanno scoperto di avere un cuore.”

Non passa in secondo piano, infatti, il volto del padre, che sembrerebbe impassibile se non fosse per le lacrime che sgorgano dai suoi occhi silenziosi, come se il volto non fosse più abituato a contrarsi in reazione a forti emozioni. Perché il circo è un paradosso: acrobati sorridenti, clown divertenti, giocolieri scherzosi che una volta tolta la loro maschera, non rimane altro che un volto scavato dalla malinconia. Risate, battute e barzellette che a fine giornata si trasformano in un lungo, profondo sospiro rassegnato. Non a caso i saltimbanchi sono personaggi molto amati da figure come Picasso o Pirandello, proprio perché sono vittime di quella società che vieta l’espressione di chi si è veramente e costringe ad essere ciò che gli altri vogliono vedere. Rappresentano così non solo l’animo dell’artista ma, in generale dell’uomo moderno.

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