Di Andrea Conforto. Pressione da parte dei professori, fatica fisica, stanchezza mentale, tenacia, rabbia, sconforto, resistenza, allenamenti saltati. Sono queste le situazioni e gli stati d’animo che quasi tutti gli atleti che frequentano il liceo in Italia si ritrovano a vivere. Ingiustamente.Una gran parte dei giovani atleti agonisti italiani si ritrova di fronte ad una scelta difficile fin dai primi anni del liceo: secondo l’Istat, l’80% di chi pratica sport ad alti livelli, decide di abbandonare l’attività sportiva a causa di un carico di lavoro impossibile da sostenere, sia fisicamente che emotivamente. Il sistema scolastico italiano richiede molte ore di studio e impone un sistema di valutazione del rendimento che si basa su criteri di discutibile precisione, come i voti calcolati scientificamente. Questo puó portare alcuni atleti a dover ridurre le sessioni di allenamento per concentrarsi maggiormente sugli studi, determinando il peggioramento inevitabile dei risultati e demotivandoli fino a purtroppo smettere l’attivitá sportiva. Una buona organizzazione del tempo, che normalmente caratterizza gli studenti-atleti, non basta nella maggior parte dei casi. Senza uno sguardo diverso da parte dell’istituzione scolastica, questa percentuale, l’80%, non si ridurrá. Serve il coraggio di staccarsi dai voti, di coinvolgere in progetti, di vedere l’evoluzione personale e didattica di uno studente che ha quattro ore in meno al giorno per studiare e che malgrado le apparenze fa del suo meglio, perché quello è addestrato a fare.  Serve una scuola che riconosca il valore di giovani che scelgono di dedicarsi con costanza e sacrificio ad un’attivitá sana e che non li tratti come dei perditempo. Ma forse il problema è più ampio: ci vorrebbe una societá in grado di capire il valore sociale dello sport.

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