Di Francesca Sofia Rizzo. E’ esplosa da ormai 2 settimane nei notiziari la questione delle insurrezioni in Cile, costringendo l’attenzione mondiale a focalizzarsi sul Sud America.
A partire dal 14 ottobre, alcuni gruppi di studenti hanno reagito con proteste all’annuncio dell’aumento del costo dei trasporti pubblici. Questa, tuttavia, non è stata altro che una ”goccia” che ha fatto traboccare un vaso ormai colmo da tempo. Il paese, difatti, volge in una situazione critica da anni, esemplificata dall’estrema polarizzazione della ricchezza: salari e pensioni bassissime per la maggior parte della popolazione, mentre l’1% più ricco dei cileni detiene quasi il 30% della ricchezza del paese, come riportano i dati della Banca Mondiale. I problemi quotidiani delle famiglie comuni sono un riflesso di questa estrema disuguaglianza, che riguarda l’accesso e la qualità di servizi fondamentali come salute, istruzione, trasporti e alloggi.

Oggi, il governo si trova a fare i conti con l’esasperazione del popolo. Il presidente Sebastiàn Pinera ha dichiarato ”Siamo in guerra”, difatti rispecchiando quello che sta avvenendo nelle strade di Santiago negli ultimi giorni: la gestione dell’ordine pubblico è stata delegata ai militari, i quali hanno dato il via a una repressione durissima che non ha fatto altro che esacerbare la protesta. Il paese sembra essersi spaccato tra forze militari, al servizio del governo, e la parte civile, ridotta all’etichetta di ”vandali”dalla maggior parte dei media. La comunicazione e un eventuale compromesso tra le due fazioni sembra non essere ancora possibile, in parte perché le manifestazioni sono nate in modo spontaneo, senza leader che si possano ergere a portavoce del movimento insurrezionale.

Quel che è certo è che il popolo sta avendo la possibilità di far sentire finalmente la proprio voce, con una risonanza mondiale. Il costo è tuttavia altissimo: si contano infatti, ad oggi, circa 15 morti.

Il Cile non è tuttavia un unicum nel sud del continente americano: le politiche neoliberiste adottate negli ultimi 30/40 anni (riduzione delle tasse, della spesa pubblica e dell’intervento statale in generale) stanno mostrando i loro effetti nefandi e la recessione che ha interessato o minaccia la maggior parte dei paesi è un problema che i governi, in larga parte conservatori o di destra populista (ne è un esempio Jair Bolsonaro, in Brasile), non riescono ad arginare, nonostante le promesse di crescita e stabilità.

L’Ecuador è stato interessato di recente da un’ ondata simile a quella del Cile di crisi e proteste, che, nello scontro con le forze dell’ordine, hanno mietuto 7 vittime.
Anche l’Argentina ha visto nel mese di ottobre sollevazioni contro i tagli alla spesa pubblica, voluti dal presidente Mauricio Macri.
Il Messico, sull’orlo di una recessione, si trova inoltre fare i conti con il dramma irrisolto del narcotraffico, tornato sotto i riflettori dopo la fuga del figlio del trafficante noto come ”El Chapo”. Scandali riguardanti corruzione e crimine riguardano anche il Brasile e il Perù, in uno scenario socio-economico non più roseo rispetto ai paesi vicini.

I focolai di protesta si moltiplicano, facendo del Sud America una polveriera, lontano dallo stereotipo e dall’immagine idealizzata di una terra d’allegria e musica: la forza vitale dei popoli sudamericani di certo non è estinta, ma si manifesta catalizzata dalla rabbia e dall’esasperazione.

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