Di Giulia Capobianco.Era notte fonda. Una notte gelida e piovosa. Il bus per tornare a casa era colmo di gente, i posti a sedere non c’erano più. Dietro di me c’era un uomo. Un uomo alto con un copricapo di una tuta dal colore grigiastro, quasi come se sapesse che quella notte sarebbe stata gelida. Guardava un altro uomo, simpatico, con i baffi e anche lui aveva il suo stesso colore della pelle. Uno sguardo per nulla timido o familiare; uno sguardo incredibilmente ricco di disprezzo. Il buffo baffone si accinge a chiamare la fermata; pigia il pulsante e le porte si aprono. Lui, lui che lo disprezza, lui lo spintona con violenza fuori dal bus, rischiando di farlo cadere a terra. Lo sguardo colmo di quell’incomprensibile odio e quella macchia di sputo sulla sua spalla non si cancellano facilmente.

Un vero motivo non c’era probabilmente. Così come non c’è un vero motivo per cui continuiamo a disprezzare chiunque. La pelle, il sesso, i gesti, le scelte. Eccola qui la paura, eccola qui che arriva e sembra non andare più via.

Paura. Paura di sentirsi sbagliati, paura di sentirsi inadeguati, paura di sentirsi discriminati. Paura di non poter vivere liberamente la propria sessualità, paura di ciò che è diverso. Quante volte viviamo nella paura e quante volte non abbiamo vissuto a causa di questa. Non è facile essere sé stessi né raccontare sé stessi. Raccontare non con parole, ma con i singoli gesti sulla scena della quotidianità.

Discriminare. Etichettare. Un suono comune, quasi indifferente, ma il contenuto ha imprigionato e imprigiona tutt’ora, la vera libertà. La libertà di poter camminare mano nella mano con la propria persona senza curarsi minimamente se sia un lui o una lei. La libertà di poter viaggiare su un autobus per la città, senza essere spintonato, picchiato per il colore della pelle o perché quell’autobus e quella città non sono il nostro vero posto.

Forse siamo troppo impegnati ad incolpare chi si trova su uno scalino più alto di noi, siamo troppo occupati ad addossare colpe e a puntare il dito contro. Forse una soluzione c’è e siamo noi. Potremmo imparare a non etichettare chi ci sta accanto, potremmo provare a non dare per forza un nome a ciò che vediamo. Quella soluzione siamo noi.

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