Di Daniele Annibali. Facciamo un esperimento: prendiamo un contesto felliniano, mischiamolo con un po’ di parlata “romanesca” alla Luigi Magni, aggiungiamoci una bella fetta dei migliori film di guerra di Robert Aldrich e concludiamo il tutto con “Freaks” (1932) di Tod Browning, “Roma città aperta” (1945) di Roberto Rossellini e i Fantastici Quattro, senza dimenticare il condimento basato sugli stili di Charlie Chaplin e Steven Spielberg. Ed ecco quì Freaks out, il nuovo film di Gabriele Mainetti, regista di “Lo chiamavano Jeeg Robot” (2016). È un’opera che vive di contrasti. C’è il sogno, la speranza, la gioia e l’immaginazione. Ma c’è anche la triste e cruda realtà, con tutti i suoi orrori.

Il film presenta un tipo di struttura narrativa semplice e avvincente, articolata da diverse citazioni cinematografiche e musicali. Quattro “freak” – interpretati rispettivamente da Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto e Giancarlo Martini – vanno alla ricerca del loro capo Israel (Giorgio Tirabassi) in una Roma invasa dai nazisti.

Mainetti, con Freaks out, mette in evidenza una riflessione sul valore attuale della storia contemporanea: cos’è il presente se non una conseguenza del passato? Questo tipo di ragionamento è incarnato in Franz (Franz Rogowski), un soldato nazista ossessionato dai “freak” e perseguitato da alcune “visioni” profetiche che descrivono il mondo d’oggi.

Con la vittoria del “Leoncino d’oro” alla settantottesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Freaks out si conferma ad essere uno dei migliori film italiani degli ultimi anni, non solo per la sua qualità tecnica e visiva, ma anche per il suo valore divulgativo nel cinema internazionale.

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