Di Cristiana Miglietta. “Nobody should die for fashion”. È il grido di coloro che si sono riuniti in una marcia contro il fast fashion e le condizioni disumane di molti lavoratori del settore. Londra e Manchester sono stati gli echi dei morti sotto il crollo del Rana Plaza, la fabbrica collassata a Dacca, Bangladesh, il 24 aprile 2013.

Spesso si dà poca importanza a quell’etichetta dove viene segnalata la provenienza dei propri capi d’abbigliamento. Made in Bangladesh, Made in China, Made in Pakistan sono solo alcune delle provenienze davanti a cui si rimane impassibili. Più raramente ci si vanta del Made in Italy, come a dire che sia automaticamente di qualità superiore. Eppure dietro a quelle etichette all’apparenza insignificanti si nascondono delle realtà disumane. Realtà come quella del Rana Plaza, l’edificio che non era adatto a essere usato come fabbrica ma che venne sfruttato lo stesso come tale da grandi marchi occidentali. Due dei nove piani, inoltre, erano stati aggiunti illegalmente trascurando ogni standard di sicurezza. Nel crollo morirono 1.134 operai e rimasero ferite altre 2.500 persone.

La più grande tragedia dell’industria tessile mette in evidenza la crudele strategia del profitto a ogni costo a discapito dei lavoratori. Persone spesso disperate e costrette ad accettare quel ricatto perché la possibilità di morire per le pessime condizioni lavorative è comunque una prospettiva migliore della certezza di non avere soldi per comprare da mangiare.

Il mondo della moda non è rimasto a guardare, ma ha fatto ancora troppo poco. Certo, le condizioni di sicurezza delle fabbriche sono migliorate, ma i lavoratori restano ancora sostanzialmente poveri e spesso maltrattati, come denuncia da anni Human Rights Watch. Lo stesso giorno del crollo nacque un grande movimento di attivismo chiamato Fashion Revolution che, ancora oggi, lotta per una maggiore trasparenza dentro l’industria tessile. Ciò che sta davvero cambiando, infatti, è la consapevolezza dei cittadini, che iniziano a chiedersi chi abbia realizzato i loro capi d’abbigliamento. Per molti quel Made in Bangladesh potrà non significare nulla, ma per altri porta tutto il peso di una missione umana per la quale nessuno dovrebbe morire in nome della moda.

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