Di Riccardo Fermani. Nigel Owens è una tra le figure più importanti e conosciute di questo sport, un uomo che ha fatto la storia del rugby e da sempre considerato come il trentunesimo uomo in campo. È ospite degli spettacoli tv del sabato sera, ma non è un cantante e neppure un attore. E’ invitato a tenere conferenze nelle università, ma non è un professore accademico. E’ editorialista sugli inserti domenicali dei quotidiani e opinionista nei canali televisivi, ma non è un giornalista. Ha scritto un’autobiografia, ma non è uno scrittore. Ha giocato a rugby ma i suoi meriti da giocatore sono pochi perché infatti il gallese, Nigel Owens, è un arbitro. Ma non un arbitro qualunque, bensì il migliore al mondo, nonché colui che ha riscritto l’etica e la morale di uno sport, il rugby.

Si è sempre detto che un arbitro, quando è bravo, non si deve notare. Con Owens è impossibile. Adesso, perché tutti, almeno nel pianeta ovale, lo conoscono. E prima, perché ha sempre unito la bravura alla disinvoltura, la precisione alla sobrietà, la puntualità a una certa classe. Protagonista, senza volerlo. Modello, senza cercarlo. Personaggio, senza pretenderlo. È un esempio da seguire dentro e fuori dal campo. Rappresenta i valori cardini di questa disciplina: il rispetto, la passione e la solidarietà.

Nel rugby l’arbitro è una figura sacra, la sua parola è legge ed in quanto tale va rispettata. È impossibile ed intollerabile assistere, durante una partita, ad offese e scenate in seguito a delle scelte arbitrali, come invece sempre più spesso avviene nel calcio. Al contrario nella nobile disciplina del rugby, l’unico incaricato al quale è concesso “chiedere spiegazioni” all’arbitro, è il capitano; il quale infatti può, nelle fasi di stallo del gioco, con tono educato e rispettoso, esporre i propri dubbi o riportare al giudice di gara delle richieste di altri giocatori della sua squadra.

Famosissime a tal proposito sono alcune sue frasi dette durante dei match internazionali, che ancor meglio, fanno chiarezza sul valore di Nigel Owens, in primis come uomo e successivamente come arbitro e che evidenziano la sua passione e dedizione nel mantenere questo sport, il più sano possibile, delineandolo sicuramente come un personaggio al di sopra delle righe. Tra queste la più conosciuta, è la sua affermazione nei confronti di un giocatore sudafricano, il quale durante un importantissimo incontro europeo, osò sfidare e lamentarsi delle decisioni arbitrali di Owens. Una scena, come già detto, intollerabile nel rugby ed ancor meno per l’arbitro gallese il quale, stufo dell’atteggiamento maleducato di questo giocatore, disse: ‘Bene, fermiamo il gioco’, e gli spiegò: ‘Credo che non ci siamo mai incontrati prima, ma l’arbitro sono io, non tu. Tu fai il tuo lavoro, e io faccio il mio. Questo non è il calcio’”. E quella volta che a un giocatore che faceva la scena tuffandosi come fanno di solito i calciatori, gli indicò dove fosse lo stadio da football più vicino. Oppure l’episodio nel quale, ai giocatori che parlavano in campo, ribadì: “Lo stadio di calcio è a 500 metri da quella parte”.

Nonostante la sua strepitosa carriera arbitrale, che presenta numeri da capogiro, con i quali ha infranto record e scritto pagine di storia di questo sport, la sua vita non è sempre stata un crescendo, tutt’altro. Nigel Owens deve essere infatti  considerato, oltre che un esempio come arbitro, una persona da ammirare per aver lottato contro tutto e tutti, per non essersi mai arreso dinanzi alle difficoltà, agli ostacoli della vita e tutto ciò solo per amore, perché Nigel Owens è omosessuale.

In alcune interviste e soprattutto nella sua autobiografia, Owens racconta:“Per sopportarlo, in un ambiente così maschio come quello del rugby, cominciai a bere e mangiare, e a farmi di steroidi fino a diventarne dipendente. Soffrii di depressione e bulimia. Una notte volli farla finita: uscii di casa con un fucile, una scatola di paracetamolo e una bottiglia di whisky”. Svenne prima di suicidarsi. “Quando mi ripresi, scelsi di vivere”. Fu decisivo non solo il sostegno della famiglia, ma anche quello del rugby. “E’ uno sport speciale, di gentiluomini, che detta le regole, insegna a stare al mondo e impone il rispetto, per gli avversari e per i compagni, per se stessi e per l’arbitro”. Da quel giorno diventò arbitro della propria vita e non perse un occasione per trasmettere i valori più sani e promuovere quella solidarietà che tanto ha ricercato nella sua adolescenza, ma paradossalmente, facendolo per 32 anni nello sport più duro e maschio.

 

 

 

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