Di Eleonora Diamante.

Tante domande, nessuna certezza,poche o nessuna risposta; ed ancora incredulità, mancanza di comprensione: queste sono le sensazioni che colpiscono tutti noi, come un cazzotto nello stomaco, quando veniamo a conoscenza di un suicidio. Una storia spezza: non per malattia, non per mano altrui. Spesso chi compie il gesto estremo viene a volte accusato di egoismo, di codardia, ma sarebbe bene che ognuno cercasse di informarsi, di mettersi nei panni di chi arriva a compiere un tale gesto, sentendo sulla pelle il loro stato d’animo, l’assoluta mancanza di speranza, il vuoto e la disperazione che portano nei loro cuori, così da smettere di giudicare per iniziare ad intervenire attivamente come società per far calare i preoccupanti numeri di questo fenomeno.

L’importanza dell’analisi di questo fenomeno sfocia nella nascita della suicidologia, la disciplina rivolta allo studio scientifico del suicidio e della sua prevenzione.

Ma c’è un tipo di suicidio, altrettanto drammatico che avviene in un luogo di emarginazione totale: quello  nelle carceri, un fenomeno molto frequente e che molto spesso viene posto in secondo piano se consideriamo i detenuti come numeri, come sotto prodotti di uomini e donne, e non come persone. Il suicidio mette un punto finale alla sua vita ed è una scelta compiuta da individui disperati, che giorno dopo giorno vedono annullarsi come persone e noi tutti dovremo riflettere, parlare, esporci, per far sì che questi diventino problemi non più ignorati, ma posti sullo stesso piano di quelli che coinvolgono i comuni cittadini.

Tra le innumerevoli cause emergono i disagi dovuti al sovraffollamento, alla mancanza di ascolto, progettualità, alla solitudine, al timore per il futuro ed a fattori soggettivi come l’impatto con la realtà carceraria, i rapporti con gli agenti, la famiglia e con gli altri detenuti. Con l’entrata all’interno del carcere si affronta lo sradicamento di riferimenti quali famiglia, amici, lavoro, che portano l’individuo a smarrirsi, a perdere ogni certezza e ad arrivare ad un’alterazione spazio temporale che li incanala in un vortice da cui è difficile uscire per ritrovarsi.

I soggetti maggiormente a rischio sono i giovani adulti, le persone più vulnerabili e deboli che sono più sensibili a cadere, coloro che fanno uso di droghe e che hanno avuto storie di precedenti comportamenti suicidari, ed i detenuti che soffrono di patologie psichiatriche. In un ambiente dove la disperazione e il disadattamento porta alla legge del più forte, a sottostare la volere altrui; dove il sesso viene esercitato nelle forme più bestiali; dove i rapporti umani sono annullati Questo fenomeno è diffuso anche nelle donne, seppur in misura minore perché, come ha detto a TVGNEWS  il Dr. Federico Bianchi di Castelbianco, psicologo e psicoterapeuta, le donne posseggono una struttura psicologica ben diversa dagli uomini: nella maggior parte dei casi hanno dimostrato di reagire in modo diverso e di possedere una maggiore forza e resistenza a situazioni stressanti e di dolore.

Di solito la modalità più frequente con la quale viene compiuto quest’atto è l’impiccagione, che avviene soprattutto durante l’isolamento, nella notte e nel fine settimana quando c’è meno personale, seguita dal taglio dei polsi, dal soffocamento e dall’overdose provocata da farmaci psichiatrici.

Nel 2020 il bilancio delle persone che hanno posto fine alla propria vita nelle carceri italiane è di 61, un numero preoccupante e di gran lunga superiore rispetto a quello degli anni passati, e che ha coinvolto per lo più giovani adulti, con età media di 39 anni. Si pensa che il Covid abbia aggravato ulteriormente questo fenomeno, portando con sé un clima di paura, ansia, frustrazione, sofferenza ed impotenza, anche nel non poter proteggere e stare vicino alle persone care. Le restrizioni applicate negli istituti hanno fortemente limitato stimoli, visite dai familiari, i trasferimenti, attività di volontariato e di laboratorio praticate all’interno e all’esterno delle carceri soprattutto dai più giovani, con una conseguente mancanza di evasione mentale e di socializzazione sia dentro che fuori.

L’istituto dove sono stati registrati più casi di suicidio nel corso dell’anno è la Casa Circondariale di Como con tre decessi fra il mese di giugno e quello di settembre, – riferisce la rivista dell’asoociazione Antigone, critica del sistema carceraio italiano –  seguono con due casi ognuno gli istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere.Il suicidio in ambiente detentivo è la principale causa di morte ed è un avvenimento che non coinvolge solamente i detenuti, ma anche gli operatori e la Polizia Penitenziaria, che vive costantemente un clima di disagio, di stress lavorativo e di pressione psicologica difficile da gestire.

E’ fondamentale la conoscenza del detenuto, dell’evoluzione del suo comportamento, che deve essere monitorato durante tutta la sua permanenza, delle conseguenze dell’azione che l’istituzione carceraria ha sulla persona e che possono portare prima ad uno stato di “morte emotiva”, la quale può successivamente sfociare nel reale desiderio di morte. L’Istituzione Penitenziaria e l’OMS hanno creato un programma di prevenzione del suicidio in carcere, che vede come priorità quella di puntare sulla formazione professionale degli operatori penitenziari che devono essere pronti a captare i segnali di rischio di suicidio, lavorando con empatia mettendo in primo piano il dialogo ed il rapporto umano. Prevedono inoltre un miglioramento delle strutture e delle condizioni di vita dei detenuti, rispettandoli come persone e conferendo loro dignità umana.

Non possiamo più permetterci di tenere gli occhi chiusi, di pensare che nel nostro piccolo non possiamo intervenire, ma dobbiamo credere nella forza della conoscenza, del dialogo, dell’ascolto, di maggiore sensibilità e attenzione; solo così potremo salvare ogni individuo, la cui vita è sacra e merita di essere tutelata.