Di Angie Rakotomavo. I social, i media, la televisione sembrano propinare “l’idea che la bellezza oggi sia un qualcosa di ben preciso a cui adeguarsi: un certo modo di vestire, di mangiare, di parlare, di camminare. Non si tratta di una questione puramente estetica, ma di una tecnica politica di esercizio di potere. In altre parole, di una gabbia dorata in cui non ci rendiamo conto di essere rinchiusi” scrive la saggista Maura Gancitano nel libro “Specchio delle mie brame”.

 

La sensazione comune che scaturisce da questo ragionamento è la bellezza come un “impegno sociale”: non dobbiamo invecchiare, non dobbiamo ingrassare, dobbiamo nascondere le parti di noi che non rispettano gli standard. L’idea comune di bellezza deriva, quindi, da un “mito” che influenza le nostre vite e inostri corpi, ponendoci sotto il peso di un giudizio, di una vergogna e di un’ansia costanti verso il nostro aspetto fisico, continuamente oggetto di giudizio.

 

Ricordo quanto mi pesasse da piccola l’avere i capelli crespi, mossi, un pò afro, e l’affanno di mia madre nel volermeli costantemente lisciare, inducendomi così a non accettare la loro natura ribelle, specchio forse del mio animo in quei tempi puerili. Il vedere sporadicamente in televisione capigliature come la mia ha sicuramente incrementato questo senso di disagio e di repressione. Lo stesso che patiscono tutti quei corpi considerati “non conformi agli standard di bellezza ideale”. Per uscire da questo terribile concetto di “bellezza ideale”, che vuole ridurre ad una lista standardizzata un qualcosa di ben superiore che esula l’oggettività, bisogna innanzitutto prendere coscienza della diversità delle percezioni. Allo stesso tempo però riconoscere che esse sono, consciamente o inconsciamente, influenzate e condizionate dal contesto sociale  in cui si vive. Basti pensare che in Africa viene apprezzato molto di più un corpo abbondante rispetto a quello snello, richiesto invece dalle case di moda occidentali; nell’antica Roma veniva elogiata molto una pelle chiarissima rispetto ad una più ambrata.

Una volta acquisite queste prese di coscienza, bisogna fare un lavoro di destrutturazione di queste influenze sociali, assimilate direttamente e indirettamente, e chiedersi cosa ci susciterebbero davvero certe situazioni se venissimo da un altro pianeta, da un’altra epoca. Perché alla fine la bellezza è questo: una sensazione. E noi siamo individui tutti diversi che non possono reagire allo stesso modo dinnanzi a determinati scenari. E il concetto di “bellezza oggettiva” altro non è che un tentativo di unilateralizzare il pensiero. Esercizio quindi di una forma di potere, la stessa che induce i giovani, più fragili e sensibili, ad affannarsi a raggiungere uno stereotipo di bellezza, portandoli  a stringere patti con il diavolo: si auspica ad una taglia x, si sottopongono i capelli a fonti di calore per messe in piega,  la pelle a stress continui tra trucchi e creme, il corpo ad allenamenti strazianti, diete svilenti. Il diavolo in questo caso sono tutte quelle attività che lucrano su queste insicurezze ed alimentano la macchina della bellezza ideale. Alludendo al fatto che una volta raggiunto tale traguardo, si goda poi di un senso di appagamento.  E non vi è niente di più falso.

 

Pure quando mi lisciavo i capelli non estirpavo il senso di inadeguatezza. L’accettazione e la valorizzazione della vera essenza è l’unica via di liberazione. Questo dovrebbero insegnarci, non la conformazione a gusti indotti.